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mercoledì 5 febbraio 2014

The Wolf Of Wall Street


Annunciato, atteso e per molti versi anche temuto è infine giunto sugli schermi l'ultimo lavoro di Martin Scorsese, The Wolf Of Wall Street. Tratto dall'autobiografia del protagonista Jordan Belfort e magistralmente adattato per il grande schermo da Terence Winter (I sopranos, Boardwalk Empire) il film racconta la parabola di un giovane broker di Wall Street che ben presto si ricicla in tycoon della Stratton Oakmont, una società di brokeraggio di titoli spazzatura. Abilissimo venditore, Belfort si arricchisce moltissimo e in modo incredibilmente veloce, entrando in un vortice di droghe, feste e donne troppo facili. Nemmeno l'implosione del suo universo a causa di una indagine dell'FBI riuscirà a mettere in ginocchio l'ineffabile Jordan.


Si parla di The Wolf Of Wall Street come di una commedia, anche se alcune scene sono genuinamente esilaranti mi pare che Scorsese utilizzi la figura dell'iperbole per raccontarci qualcosa di noi. La pellicola è stata accostata ad altre dello stesso regista ma non ha il senso del grottesco di Fuori Orario, nè la ossessività che pervade l'Howard Hughes di The Aviator, nè tantomeno racconta di una ascesa e caduta come in Goodfellas. The Wolf Of Wall Street racconta di un vuoto che è prima di tutto culturale e si nutre di avidità: l'avidità di Belfort che truffa allegramente il suo prossimo e l'avidità - a ben vedere - dei suoi clienti che sperano di arricchirsi facilmente senza chiedersi come ciò sia realisticamente possibile.  Belfort e la sua compagine di spacciatori trasformati come per incanto in finanzieri non vogliono entrare nei salotti buoni da cui sono esclusi per ceto, non sono spinti dalla rivalsa verso una società che li guarda  dall'alto in basso. Nemmeno nel momento di maggior fortuna spostano la società da Long Island a Manhatthan: Jordan ed i suoi sanno bene che Wall Street è in realtà un posto a cui non appartengono; sono intrinsecamente, profondamente volgari: persino la loro droga preferita, il quaalud, è una droga da poveri, guidano auto stupende solo perchè appariscenti. Belfort possiede uno yacht costruito negli anni 50 per Coco Chanel e lo fa naufragare al largo della Sardegna per pura ignoranza (a proposito, significativa la descrizione del salvataggio "all'italiana" che finisce in una festicciola - nella realtà Belfort ed i suoi furono salvati dal Gruppo Operativo Incursori della Marina, nientemeno). Guardando il film mi sono venuti in mente sia i truffatori televisivi di The Hustle ("quando qualcuno vuole qualcosa in cambio di niente, noi gli diamo niente in cambio di qualcosa") e il Martin Sheen di Wall Street che chiede al figlio "ma è possibile che tu non voglia creare niente?".  Jay Gatsby, per tornare a un personaggio interpretato di recente dallo stesso Di Caprio, distrugge un impero costruito in modo disonesto, ma per amore; Jordan Belfort invece si può definire solo in negativo: guadagna e perde una fortuna non per noia, non per disprezzo delle regole sociali, non per inseguire una vita migliore, in effetti non ha motivazioni, ma solo un insondabile vuoto interiore.


Il casting è una delle cose più riuscite del film; oltre a un Leonardo Di Caprio molto in palla troviamo Jonah Hill che potrebbe trovare il suo Oscar per l'interpretazione di Donnie Azoff, il braccio destro di Jordan; Margot Robbie (è la seconda moglie di Jordan, Naomi) sfoggia un corpo praticamente perfetto da Barbie perversa, Jean Dujardin si consacra internazionalmente nella parte di un banchiere svizzero. Una parte breve ma significativa per Matthew McConaughey tanto bravo quanto fisicamente smagrito. Diversi registi ricoprono ruoli di secondo piano: Rob Reiner (Stand By Me, Harry ti presento Sally, Misery non deve morire, Codice d'onore) è bravissimo nella parte del padre di Jordan (geniale la scena in cui risponde al telefono), Jon Favreau (Iron Man I e II, Cowboys & Aliens) impersona il consulente legale di Jordan; se siete attenti vedrete comparire in un cameo anche il mitico Spike Jonze (Being John Malkovich, Her). Occhio all'ultima scena il presentatore che annuncia l'ingresso del protagonista è interpretato dal Jordan Belfort "autentico".


Sesso, droghe e turpiloquio, oltre che una lunghezza eccessiva (anche se non fastidiosa) ne fanno un film non per tutti i palati, tuttavia la maestria di un regista come Scorsese e la bravura degli attori ne fanno un'opera che non si può ignorare "a prescindere". 
La critica di Scorsese più che verso il mondo della finanza (che peraltro ne esce malissimo) è diretta a un modello di (in)cultura ormai dominante. Il personaggio di Jordan viene descritto dal punto di vista narrativo come se fosse guardato attraverso un obiettivo fish eye: Belfort non è drogato è strafatto, non vuole essere ricco ma straricco, non organizza feste ma baccanali, non è avido ma vorace. Più che un lupo in effetti ricorda uno squalo che divora tutto quello che gli passa accanto senza chiedersi neppure se sia commestibile o meno. 
D'altro canto un facile giudizio moralistico sarebbe avventato, perchè Belfort ha la stessa funzione di uno specchio deformante: in quella immagine fastidiosamente distorta che Scorsese ci confeziona ognuno di noi può trovare un pezzetto di sè, perchè non siamo noi ad aver fatto Jordan Belfort così com'è, ci piaccia o meno Jordan Belfort siamo noi.


2013 - The Wolf Of Wall Street
Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Terence Winter
Montaggio Thelma Schoonmaker
Costumi: Sandy Powell
Scenografia: Bob Shaw

venerdì 24 maggio 2013

Il grande Gatsby - Back to black


Accingendosi a vedere Il grande Gatsby è opportuno tenere a mente una raccomandazione: sarebbe unfair chiedere a Baz Luhrmann di essere un novello Francis Ford Coppola. Luhrmann è rococò, eccessivo e grandioso ed è proprio su queste caratteristiche che ha costruito una fama, che - pure - è dovuta fondamentalemente agli ormai lontani nel tempo Romeo+Juliet e Moulin Rouge (assumendo che Ballroom e  Australia li han visti relativamente in pochi);  entrando in sala meglio non aspettarsi la misura estetica ed emotiva che caratterizzava il film con Robert Redford e Mia Farrow. Detto questo meglio non proseguire con i paragoni, chè il discorso sarebbe lungo e complesso; meglio concentrarsi sul film attualmente in sala.


Se ancora non sapete nulla della trama, leggetevi il libro perché se lo merita; qui mi limiterò a riferire che il film si concentra sulla parabola del sogno  d'amore "impossibile" di Gatsby che finisce nell'annientamento da una parte e nella indifferenza dall'altra proprio come nella Back to black di Amy Winehouse non a caso presente nella colonna sonora, pur se nella versione di Beyoncé e André 3000; la voce narrante una volta tanto è giustificata (ma cosa c'entra lo psicanalista?), le differenze fra la sceneggiatura ed il romanzo sono (quasi) sempre comprensibili.
La scenografia ed i costumi sono opera della moglie di Luhrmann, Catherine Martin (un sodalizio che funziona sia sullo schermo che nella vita). I vestiti da sera sono Prada e varrebbero la pena da soli, ma in più ci sono abiti da giorno per i personaggi delle più varie estrazioni sociali (per la moda uomo Carraway ha sempre pesanti tweed sportivi, mentre Gatsby è vestito leggero e colorato, Buchanan ha completi scuri impeccabili). Il castello di Gatsby è esattamente come dovrebbe essere: fuori di testa.

Luhrmann delizia gli occhi soprattutto nella prima parte con piani sequenza e dolly che fanno volare lo spettatore da un lato all'altro della baia, dalla sontuosa e raffinata villa dei Buchanan al castello fatto per stupire di Gatsby. La scena della festa è tutto sommato meno "moulin-rougesca" di quanto mi aspettassi. L'utilizzo di musiche moderne su una ambientazione d'epoca è l'aspetto, a questo punto, più prevedibile; però rende bene l'idea di sfrenatezza alle orecchie dello spettatore di oggi per cui il jazz - ancorchè caldo - suona un po' troppo "passato".


Leonardo di Caprio l'ho trovato perfetto. Con quella faccia da bambino invecchiato rende benissimo l'idea romantica dell'uomo che in una certa misura si rifiuta di accettare la realtà e tenta di costruirne una a misura della propria immaginazione. Non riesco a capire come qualcuno lo trovi bello, però è molto, molto bravo. Joel Edgerton è un Tom Buchanan molto fisico e snob ma anche un po' viscido: un'ottima intepretazione per un attore che si sta rivelando anche versatile. Tobey Maguire ha occhi che sembrano di vetro e una faccia un po' beota, pertanto è un'ottima scelta per rappresentare l'ingenuo Carraway. Carey Mulligan ha convinto Luhrmann che pure per il ruolo di Daisy aveva preso in considerazione quasi tutte:  Keira Knightley, Rebecca Hall, Amanda Seyfried, Blake Lively, Abbie Cornish, Michelle Williams e Scarlett Johansson. La scelta si è rivelata azzeccata, la Mulligan è forse meno bella di altre pretendenti, ma è molto credibile in quel fondo di tristezza che contraddistingue il personaggio. La vera rivelazione del film a mio avviso è però la giovane Elisabeth Debicki nel ruolo di Jordan Baker, la migliore amica di Daisy. La Debicki, ingaggiata direttamente da Luhrmann dopo che l'ha vista recitare a teatro, ha classe da vendere e di tutte è la meglio vestita e pettinata. Nella realtà è bionda, ma fossi lei prenderei in considerazione la possibilità di tenere i capelli neri, che le stanno benissimo (vedere foto sopra per credere).


Il film è lungo due ore e venti, ha una fase centrale che ho trovato un po' noiosa, ma tutto sommato il tempo scorre senza troppo farsene accorgere. Luhrmann, come dicevo prima, si concentra sulla storia d'amore e passa allegramente sopra alla critica sociale ed agli aspetti morali (più che moralistici, cosa apprezzabile) del romanzo. A mio avviso il limite del film è proprio questo: dato il periodo che stiamo vivendo e il metraggio della pellicola ci sarebbe stato spazio e modo per salire di livello con poco sforzo. Luhrmann sceglie invece di restare fedele a se stesso confezionando un fumettone che è una gioia per gli occhi ma resta un po' troppo sulla superficie. Da uno che ha come motto "una vita vissuta nella paura è vissuta solo a metà" mi sarei aspettato un pizzico di coraggio in più.



2013 - Il grande Gatsby (The Great Gatsby)
Regia - Baz Luhrmann
Scenografia e costumi: Catherine Martin
Fotografia: Simon Duggan

martedì 23 aprile 2013

Il grande Gatsby - Read and be ready


Il Grande Gatsby aprirà il Festival di Cannes il prossimo 15 maggio e dal giorno seguente sarà in distribuzione anche nelle sale italiane. Si tratta di un ambizioso progetto di Baz Luhrmann (Romeo+Juliet, Moulin Rouge) che torna a collaborare dopo diciassette anni con Leonardo Di Caprio. Come i titolo lascia intendere si tratta dell'ennesima (la quarta in effetti) versione cinematografica del capolavoro di Francis Scott Fitzgerald.

Oltre a Di Caprio (che trovo particolarmente adatto al personaggio), troveremo Tobey Maguire nei panni del giovane Nick e Carey Mulligan (che nella lotta per il posto ha battuto colleghe anche assai più titolate come - fra le altre -  Natalie Portman, Keira Knightley, Michelle Williams, Eva Green e Scarlett Johansson) in quelli dell'amata Daisy.

Il budget di 127 milioni di dollari lascia ben sperare per la rappresentazione delle sontuose feste nella villa di Gatsby. Scenografie e costumi promettono sontuosità senza limite e sono entrambi curati dalla collaboratrice abituale di Luhrmann, Catherine Martin.

Anche la colonna sonora (sempre una componente fondamentale nel cinema di Luhrmann) si preannuncia interessante, con brani di Florence & The Machine, Beyoncé, Jay-Z (che compare anche fra i produttori della pellicola), Lana del Rey, Fergie e Will.i.am (come solisti) dei Black Eyed Peas, Emeli Sandé & Brian Ferry.

Il trailer mi sembra promettere bene, non resta che attendere qualche settimana per vederlo!




2013 - Il grande Gatsby (The Great Gatsby)
Regia: Baz Luhrmann
Scenografie e costumi: Catherine Martin
Musiche: Craig Armstrong

mercoledì 23 gennaio 2013

Django unchained - The D is silent


Buone notizie dall'inizio del 2013! Dopo un autunno avaro di pellicole di un certo interesse, con l'inizio del nuovo anno è in arrivo una notevole quantità di titoli carichi di aspettative, tanto che temo mi sarà difficile star dietro a tutto. L'inverno del nostro scontento sembra essere passato, almeno cinematograficamente.
Di Django Unchained avevo già detto qualcosa qui, ma dopo averlo visto c'è moltissimo da aggiungere; si pone come il secondo e "americano" episodio di una  trilogia di film "storici", iniziata con Inglorious Basterds e che si concluderà con Killer Crow, sulle gesta di una compagnia di soldati di colore subito dopo lo sbarco in Normandia (tema questo già affrontato da Spike Lee con il suo Miracolo a Santa Anna). 


Il concetto di film storico di Quentin Tarantino non passa per il filologico rispetto dei fatti, ma per la resa su schermo di un'atmosfera, un'idea di passato, con l'aggiunta di alcuni elementi pulp che da sempre caratterizzano lo stile dell'autore. Venendo al dunque, Django Unchained si propone come omaggio del regista al genere spaghetti western, in particolare a Django, mitico film di Sergio Corbucci con protagonista Franco Nero. Se nel film originale Django era un inquietante reduce dalla guerra di secessione che tornava a vendicare l'assassinio della moglie, trascinandosi dietro una bara dal misterioso contenuto, Tarantino ambienta il suo film qualche anno prima e centra il discorso sulla schiavitù (argomento evidentemente di moda, considerando la prossima uscita di Lincoln di Steven Spielberg). Django (Jamie Foxx, gran fisico) è uno schiavo di colore, che viene liberato da un eccentrico bounty killer tedesco, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz, molto divertente), affinchè lo aiuti a trovare ed uccidere tre ricercati. Dopo questa prima avventura, i due decidono di continuare a lavorare insieme fino al disgelo, quando si recheranno in Mississippi per tentare di liberare dalla schiavitù anche la moglie di Django, Broomhilda (Kerry Washington, molto in parte), che nel frattempo è stata acquistata da un ricco possidente del sud, Calvin Candie (Leonardo Di Caprio, a cui la barba dona assai). Lo scontro con la cultura schiavista del sud si rivelerà però molto difficile da sopportare, più per Schultz che per Django, fino allo scatenarsi della crisi finale dove non mancano sparatorie , botte, sangue e vendetta, com'è nella tradizione del genere e del regista.


Gli attori sono diretti benissimo, oltre a quelli già citati è un vero piacere rivedere gente del calibro di Bruce Dern, Don Johnson, con un buffo pizzetto, Robert Carradine, fratello più giovane dei più famosi David e Keith,  e James Remar (il papà adottivo di Dexter nell'omonima serie). Samuel L. Jackson merita un discorso a parte, capace com'è di dare sostanza alla storia interpretando un personaggio che è la vera anima nera del plot. Franco Nero fa una divertente comparsata nel ruolo del proprietario di un lottatore nero che viene sconfitto dal mandingo di Calvin Candie; Tarantino lo ha da subito voluto nel film come personale omaggio al Django del 1966.
Come Tarantino ci ha abituati, la colonna sonora è entusiasmante (il regista ha utilizzato per la colonna sonora diversi esemplari dalla sua collezione personale di vinili d'epoca) e mischia grandi pezzi del passato, si passa dal tema originale di Django cantato da Rocky Roberts alla canzone scritta a quattro mani da Elisa e Ennio Morricone,al tema di Trinità (!) senza dimenticare la musica nera, John Legend, 2pac e James Brown.


La colonna sonora è in effetti una metafora efficace del film: dentro c'è di tutto, quasi che Tarantino si sia un po' fatto prendere la mano: c'è violenza splatter quanto mai, tutto il discorso sullo schiavismo (l'utilizzo e la ricorrenza della parola "negro" è esasperante, diventa fisicamente fastidiosa ad un certo punto del film, un effetto che ho molto apprezzato per la sua efficacia: è evidente che per gli schiavisti i neri non sono uomini, visto che non li definiscono mai così), c'è un pezzo esilarante sul ku klux klan, con la scena degli incappucciati che criticano la fattura dei cappucci. 
Il film, come sempre in Tarantino, è ricchissimo di citazioni e rimandi ai film più diversi, nella pagina wikipedia dedicata al film se ne contano circa una ventina, ma a cercarle potrebbero certamente essere molte di più.
 Il film di Corbucci era molto più dark, mentre in questo ci sono maestose riprese in esterni con piantagioni sconfinate, montagne inaccessibili, insomma si può godere del meglio che il paesaggio americano ci mette a disposizione, fotografato in modo molto luminoso.Come nel Django originale, le strade, anche in città sono viscidi pantani di fango, c'è una donna frustata e c'è una missione da compiere.



Il film è lungo quasi tre ore (un trend del 2013?) che scorrono veloci come il fiume Mississippi. Il film  - più di altri - esibisce la violenza rendendola a tratti insopportabile a tratti ridicola. Nella tradizione del western ci son panorami spettacolari, pistoleri velocissimi e letali, vecchi sdentati e negrieri spietati. Alcune sequenze rimarranno negli annali: le mie preferite sono il lunghissimo pianosequenza iniziale con gli schiavi incatenati, lo spruzzo di sangue sui fiori di cotone, la scena dell'uccisione del ricercato che sta arando il campo. Da manuale di sceneggiatura la scena della cena a casa Candie, che parte scanzonata e via via si fa più tesa, e fino all'ultimo non si sa se finirà in una bolla di sapone (come nella famosa sequenza della Sachertorte dello strudel in Inglorious Basterds) o in una carneficina.
Se da una parte il film ci rende orgogliosi - come Nazione - per essere stati capaci di reinterpretare così bene un genere tipicamente yankee che un regista a stelle e strisce lo prende ad ispirazione, dall'altro ci si potrebbe domandare quali strumenti abbia lo spettatore medio americano  per cogliere le finezze, come le musiche o come i passi di dressage che Django fa fare al cavallo nel finale, riprese pari pari da Lo chiamavano Trinità... La domanda evidentemente è oziosa: il box office sta premiando il film, i cui incassi hanno  già quasi doppiato il costo di produzione. 
Evidentemente - citazioni o no - il buon cinema non può non piacere!

2013 - Django Unchained
Regia: Quentin Tarantino
Fotografia: Robert Richardson
Scenografia: J. Michael Riva
Costumi: Sharen Davis
Montaggio: Fred Raskin



martedì 6 novembre 2012

Django unchained - Read and be ready



Read and be ready è il titolo che da oggi contrassegna i post dedicati ai film che usciranno in un futuro più o meno prossimo. Ovviamente non si tratterà di recensioni ma di qualche notizia sulla produzione di film che mi sembrano interessanti. La recensione verrà, a tempo debito
Parto in quarta con il primo post, il film è di quelli da non mancare, io mi sono già segnato in agenda la data della prima!

Sebbene l'uscita non sia ancora imminente nei cinema già se ne proietta il trailer; d'altra parte la notizia non è di tutti i giorni: Quentin Tarantino sta per tornare sugli schermi con un western! Dopo aver rivisitato il genere war movie con Inglorious Basterds questa volta tocca allo spaghetti western, e sarà Django unchained. Per chi ama la lucida e cinefila follia del regista di Knoxville posso anticipare che come sempre Tarantino è anche sceneggiatore e il cast è davvero stellare.
Per mantenere lo stile vintage dello spaghetti western Tarantino ha girato in formato anamorfico su pellicola 35mm (in parole povere una specie di evoluzione del Cinemascope) e si è affidato per lettering e grafica ad un designer italiano, Federico Mancosu, il cui lavoro, che potete ammirare qui e qui, ha fatto da solidissima base per le integrazioni dei grafici americani.


Nel ruolo del protagonista, lo schiavo nero Django, appare Jamie Foxx, anche se il ruolo era stato offerto in origine a Will Smith e Idris Elba (protagonista della serie inglese Luther, il che potrebbe aver avuto un peso nella mente di Tarantino). Il coprotagonista è Christoph Waltz, ormai affermato ad Hollywood, mentre il ruolo del cattivo se lo è accaparrato Leonardo Di Caprio, a cui la mefistofelica barbetta sembra donare molto. Ruoli secondari sono accreditati a Samuel L. Jackson, Don Johnson e Bruce Dern.
Hanno rischiato di partecipare, ed è un vero peccato che non possano far parte del progetto, anche Kurt Russel, Kevin Costner, Sacha Baron Cohen e il lanciatissimo Joseph Gordon-Levitt.


La trama ovviamente non ha nulla a che vedere con il Django originale di Sergio Corbucci con Franco Nero, che apparirà però in un cameo (o speriamo anche qualcosa di più). Lo schiavo Django viene acquisito da un eccentrico cacciatore di taglie, il dr. Schultz, per farsi aiutare a uccidere i banditi fratelli Brittle in cambio della libertà. Django ormai "scatenato" decide però di ritrovare la moglie, venduta tempo prima come schiava al cattivo Candle.  Si prevede una lunga catena di morti violente.

Tarantino, con mossa geniale, ha fissato l'uscita del film negli USA per il giorno di Natale. Qui da noi arriverà  più o meno per l'epifania, che pur portandosi via le feste ci lascerà quello che si preannuncia come un nuovo capolavoro.
Il trailer USA (è sottotitolato) è molto più figo di quelli che stanno circolando in questo periodo in Italia, spero vi piacerà quanto è piaciuto a me.



2013 - Django Unchained
Regia: Quentin Tarantino
Fotografia: Robert Richardson
Scenografia: J. Michael Riva
Costumi: Sharen Davis


mercoledì 18 gennaio 2012

J. Edgar - il lato oscuro del potere

 

Il problema con i film di Clint Eastwood sono le "great expectations", nel senso che il pubblico è ormai abituato ad un livello tale che un prodotto solo "buono" viene vissuto comunque come un passo falso. Ed è questa, purtroppo, l'impressione che lascia la visione di J. Edgar, l'ultima fatica del mio autore ottantaduenne preferito.
Il film analizza la figura di J. Edgar Hoover, il quasi onnipotente direttore del FBI, in carica dal 1924 al 1972. Hoover è una figura controversa: da un lato ha creato il più importante ente di polizia giudiziaria statunitense dotandolo di tecniche e procedure investigative d'avanguardia, dall'altro ha mantenuto carica e potere per quasi cinquanta anni probabilmente ricorrendo al ricatto e di certo a quello che oggi chiameremmo giornalisticamente dossieraggio.

Un personaggio così complesso richiede chiarezza nella tesi del film per evitare di iniziare troppi discorsi e non concluderne neanche uno.


 L'unico aspetto invece su cui la pellicola prende una posizione veramente chiara è l'ambigua sessualità di Hoover, che secondo alcuni avrebbe avuto nella figura del proprio vice Clyde Tolson un compagno fedele nella vita oltre che sul lavoro. Per dovere di cronaca, secondo  Wikipedia (del cui rigore storico è però lecito dubitare) la verità non sarebbe mai stata accertata e permangono diverse opinioni al riguardo. La sceneggiatura di Dustin Lance Black (Milk di Gus van Sant) gioca la carta dell'analisi psicologica a supporto dela propria tesi: troviamo dunque un padre debole, una madre autoritaria, una segretaria che assomiglia alla madre, e l'amante-collega che assomiglia al padre (fateci caso).
La repressione della sessualità di Hoover si fa quindi tendenza maniaco-compulsiva, proiezione verso un nemico facilmente identificabile (i bolscevichi in particolare e gli estremisti in genere) delle proprie minacce interiori. J. Edgar ha un solo obiettivo nella vita: il controllo. Infatti raccoglie, classifica ed utilizza senza scrupoli qualsiasi informazione e strumento che gli permetta il mantenimento di un mondo organizzato secondo i suoi desideri. Nel frattempo Hoover si circonda di persone rassicuranti e fedeli e contrasta senza pietà qualsiasi avversario, reale o presunto. Nella consapevolezza dell'impossibilità di raggiungere il controllo perfetto ed infallibile, nel film (sarebbe interessante sapere se l'episodio è storico o di fantasia) Hoover cambia la storia "pilotando" la propria biografia, fino ad inventarsi di sana pianta alcuni episodi, come Tolson gli rinfaccia in una drammatica scena.

 

Morale della storia: Hoover era gay e la repressione della propria personalità lo rese una persona disturbata e tormentata. Tesi interessante ed anche plausibile, ma non si sarebbe potuto esprimerla in un po' meno di due ore e un quarto, ed approfittare del tempo guadagnato per parlare anche d'altro?

Il tema mi pare poco adatto alle corde di Eastwood, che si trova più a suo agio quando ha a disposizione un'idea forte che può sviluppare, magari facendo finta di parlare d'altro come in Gran Torino o anche nel recente Hereafter. Anche in Invictus veniva analizzata una figura storica (Nelson Mandela), ma lì veniva preso in esame uno specifico episodio, forse nemmeno così importante nell'arco di una vita intera, con un riconoscibile valore esemplare. In J.Edgar invece si esce dalla sala senza poter tenere dentro un grande "...e quindi?".

Detto questo, il film si segnala per una ricostruzione storica estremamente accurata; come già in Changeling e nel dittico Flag of our fathers/Lettere da Iwo Jima, Eastwood si dimostra molto convincente nel ricreare l'atmsofera dell'epoca, probabilmente anche grazie alla collaborazione di Gary Fettis, set decorator di tutti i film di Clint dal 2006 in poi. I costumi sono di Deborah Hopper, altra collaboratrice fissa piuttosto a suo agio con il vintage, (per esempio erano opera sua anche gli eleganti costumi di Scomodi Omicidi di Lee Tamahori)



Billanti le prove degli attori: Leonardo di Caprio interpreta un Hoover sia più giovane che (parecchio) più vecchio di lui. A mio giudizio rende molto bene l'ambiguità di un personaggio che si maschera: orgoglioso ma a tratti mellifluo,  a tratti vulnerabile, ma più spesso deciso e impenetrabile. Visto in lingua originale (grazie alla lodevole iniziativa del cinema Centrale di Torino) Di Caprio è magistrale nell'imitare la cadenza della parlata, suppongo maniacalmente identica all'orginale. Il doppiaggio italiano a quanto si dice è invece piuttosto penalizzante.
Dopo il ruolo "gemello"di entrambi i fratelli Winklevoss in The Social Network di Fincher, Armie Hammer si conferma talentuoso nel ruolo di Clyde Tolson: benchè stereotipato, il suo personaggio è credibile e piacevole. Peccato per il trucco di Tolson da vecchio, che definire dilettantistico è un complimento.

Judy Dench giganteggia nell'interpretazione della madre di Hoover. Personaggio anche questo un tantino troppo prevedibile, ma quando dardeggia sguardi severi con quegli occhi duri viene lo stesso voglia di andare a chiudersi a chiave nello sgabuzzino.
Naomi Watts vestita e coiffata con cura, è un po' sacrificata nel ruolo della segretaria di Hoover, miss Gandy. Il personaggio non viene molto sviluppato, ma rende comunque l'idea di quello che a Torino chiameremmo un travet: è una figura che ama stare sempre un passo indietro, è solo un ingranaggio ma proprio dalla sua efficienza dipende il successo delle iniziative di Hoover.

Nell'insieme il film di certo non è fra i più riusciti di Eastwood, però è fotografato benissimo (da Tom Stern, altra presenza fissa nella crew di Clint), contiene - sia pure solo per accenno - alcuni episodi interessanti della storia relativamente recente degli Stati Uniti, infine pone alcune questioni come il trade off (mi si perdoni: l'inglese va di moda) fra sicurezza, rispetto delle leggi e controllo dei controllori che sono ahinoi di grande attualità. Il film non giunge a conclusioni su nessuna delle questioni che pone sul tavolo (questioni che peraltro non si prestano a soluzioni definitive, quanto ad approcci risolutivi differenti) ma almeno offre l'opportunità di aprire una riflessione, tanto più preziosa in quanto basata fatti realmente accaduti.


Un ringraziamento speciale alla dott.sa O. Bertoldo per l'analisi psicologica dei personaggi, anche se l'ho utilizzata solo come spunto di partenza per riflessioni di cui mi assumo in toto la paternità.


giovedì 25 novembre 2010

Inception - Distinguere nei sogni il falso dal vero


Dentro un  film d'azione dove si susseguono senza posa sparatorie ed inseguimenti, Christopher Nolan (Memento, Insomnia, Batman Begins, The Prestige, The Dark Knight) nasconde una complessa riflessione sulle sue tematiche preferite: sogno, realtà ed illusione. 
Il film ipotizza che sia stata scoperta una tecnica per introdursi nel subcosncio attraverso il sogno. Un team di spie industriali specializzato nel furto di informazioni direttamente dalla mente dei derubati viene assoldato per compiere l'operazione inversa, invece di scoprire un pensiero nascosto dovranno inserirne uno nuovo nella mente di un giovane capitano d'industria, Robert Fischer (Cyllian Murphy: Ritorno a Cold Mountain, Batman Begins, Il cavaliere oscuro), inducendolo a smantellare il proprio impero economico. Per farlo dovranno calarsi nel profondo del subconscio di Robert inducendolo - nel sogno - a sognare ancora e ancora, scendendo sempre più nel profondo della sua mente.
Nell'intreccio si sovrappongono dunque i piani (un sogno dentro un sogno all'interno di un altro sogno), nel film chiamati non casualmente livelli
Nel team ognuno ha un proprio ruolo, Leonardo Di Caprio (Romeo+Juliet, Titanic, The Aviator, The Departed, Body of lies) interpreta il capo della banda, Dom Cobb, talentuoso ma tormentato dalla morte della moglie Mal (Marion Cotillard: Taxxi, Big Fish, Un'ottima annata, La vie en rose, Nemico pubblico) di cui si crede responsabile, e che compare puntualmente a tormentarlo in sogno. Arthur (Joseph Gordon-Levitt, Miracolo a Sant'Anna) è il solver, la mente organizzativa; Eames (Tom Hardy, Black Hawk down, Rocknrolla) è un falsario, cioè è in grado di assumere l'identità di altre persone all'interno del sogno. Infine Ariadne (Ellen Page, Juno) è l'architetto, cioè colei che deve curare l'ambientazione del sogno nei minimi particolari, nel film ogni livello di sogno è infatti contraddistinto da una diversa ambientazione. 

Gli effetti speciali ci sono e sono curati con grande professionalità (bellissima la città che si ripiega su se stessa, un po' troppo Matrix style la lotta in assenza di gravità)  ma non sono eccessivamente invadenti.
Ancora una volta nulla di particolare da segnalare sul versante costumi.
La trama, visto il tema trattato non è del tutto lineare però all’interno del sogno, o dei sogni – che pure alla vittima devono parere reali – i personaggi, anche se consapevoli di vivere un'illusione, si muovono esattamente come nella realtà, rispettando le medesime regole e (fortunatamente per la nostra capacità intellettiva) non sovrapponendo troppo i piani. A noi capita invece di vivere spesso nei sogni come verosimile qualcosa che non lo è affatto.  
Visto il tema ci sarebbe piaciuto veder osare qualcosa di più anche dal punto di vista delle scenografie, poco o nulla oniriche.
Fra gli interpreti si distinguono Marion Cotillard per l'ambiguità che regala al personaggio e Ellen Page, solo 23 anni e già un gigante della recitazione. Una breve apparizione del sempiterno ed elegantissimo Michael Caine (qui giustamente celebrato da una delle band anglosassoni più eleganti).

Un film così si ama o si odia e ci sono ragioni per sostenere ciascuna delle due opinioni, dal canto nostro, ancora una volta, lasciamo a voi l'ardua decisione.
Nolan, anche autore della sceneggiatura, usa il registro del kolossal per interrogarci sul rapporto fra realtà ed illusione: la realtà esiste in sé, o è reale solo la nostra percezione? Viviamo davvero ancorati alla realtà o non preferiamo forse architettarci un mondo di illusioni rassicuranti per fuggire al dolore, all'insoddisfazione di un mondo che non è fatto come noi lo vorremmo? L'illusione (o la realtà) che viviamo è la nostra o è quella preparata per noi da qualcun altro? Non ci paiono domande di poco conto e fra un inseguimento ed una sparatoria il film non risolve alcuna delle questioni che pone, e meno di tutte quella fondamentale: alla domanda di Ariadne su come si possa capire se quello che si sta vivendo è reale, Dom risponde che quando ci si trova in un sogno – a pensarci bene – non si sa con precisione dire com’è iniziato. Ma se così fosse, allora chi di noi può dire di ricordarsi come è iniziato il sogno che sta vivendo in questo momento?