giovedì 31 gennaio 2013

Quartet - una musica può fare


Settantacinque anni sono un'età più che rispettabile per un regista esordiente. Con il delicato Quartet, Dustin Hoffman si regala un'avventura in un ruolo per lui inusuale, confezionando un film sulla terza età lieve e piacevole, più profondo di quanto potrebbe sembrare ad un'occhiata superficiale.
Hoffman non solo dirige la pellicola con grande polso, andando dritto alla meta senza inutili divagazioni, ma resiste anche alla tentazione di ritagliarsi un ruolo da attore (ritenendosi forse troppo giovane per la parte?).
Un film piccolo nel budget, che però ha senso. Non cambierà la vostra vita, ma vale proprio la pena vederlo.

Sheridan Smith - Dr. Lucy Cogan

La sceneggiatura è adattata da Ronald Harwood (Servo di scena, Il pianista, Lo scafandro e la farfalla) a partire da un suo lavoro teatrale ed stata ispirata da un documentario del 1984, Il bacio di Tosca, sulla casa di riposo per musicisti "Giuseppe Verdi" di Milano, fatta erigere dallo stesso Maestro, che vi è sepolto  (oltre che luogo dove viene conservato il ritratto di Verdi che veniva stampato sulle banconote da 1.000 lire, nota per vecchi nostalgici).
Il film segue le vicende di un gruppo di anziani cantanti e musicisti ospiti della casa di riposo Beecham House, presi dai preparativi per l'annuale concerto per la commemorazione della nascita di Verdi. La routine viene stravolta dall'arrivo di una vera e propria star, Jean Horton (Maggie Smith), ex moglie di Reggie (Tom Courtenay, una lezione di calibrazione dell'interpretazione), ospite da tempo dell'istituzione insieme agli amici Wilf (Billy Connolly, perfetto), un simpatico casinista con problemi di prostata, e Cissy (Pauline Collins, straordinaria), affetta  da alzheimer. I tre amici tentano di convincere la scorbutica Jean a tornare ad esibirsi in una riedizione del Rigoletto che i quattro tennero in gioventù riscuotendo un incredibile successo. Fra la difficoltà ad accettare il decadimento fisico e la voglia di creare qualcosa di bello che l'età non può sopire nell'artista i quattro scopriranno che il risultato finale può essere molto di più della somma dei singoli se ci si sostiene l'uno con l'altro.
Bellissima la scena in cui Reggie spiega cos'è l'Opera ad una classe di giovani visitatori amanti dell'hip hop e davvero commovente quella del risveglio di Cissy dopo l'incidente.

Tom Courtenay - Reggie e Billy Connolly - Wilf

Il film, che ha aperto fuori concorso il TFF 2012, è stato girato nel Buckinghamshire in una villa normalmente utilizzata per ricevimenti, Hedsor House; oltre agli attori professionisti utilizzati per i ruoli principali (fra cui non va dimenticata la interessante Sheridan Smith nel ruolo della dottoressa Lucy) vi hanno partecipato moltissimi musicisti nel ruolo degli ospiti: potrete scoprirne il passato guardando i titoli di coda.

Il Dustin Hoffman regista confeziona una pellicola che tratteggia la "vita da vecchi" senza affondare il colpo, perchè Quartet non è semplicemente un film su dei simpatici vecchietti, ma una dichiarazione di amore per ciò che muoveogni artista e che l'età non riesce a sopire: l'amore per la bellezza. Quasi tutti gli ospiti di Beecham House hanno sacrificato tutto all'arte: magari hanno avuto tanti matrimoni ma raramente figli e famiglie stabili. Giunti alla terza età non hanno più le forze, pur avendo ancora il fuoco dentro. Qualcuno ha defaillances mentali, qualcun'altro ha problemi ad accettare che il mondo vada avanti senza di lui, ma non è più tempo di personalismi: per chi non ha più nessuno vicino è la squadra a far sì che tutto giri come deve. Non è l'età che  conta, ma l'amore per quello che si fa, e dietro ad una facciata di problemi si nascondono risorse insospettabili. Una lezione da cui dovremmo imparare a trarre un maggior profitto, sempre.

Senza trucco: il cast con il regista

2012 - Quartet
Regia: Dustin Hoffman
Sceneggiatura: Ronald Harwood
Fotografia: John De Borman
Musiche: Dario Marianelli
Scenografia: Andrew McAlpine

lunedì 28 gennaio 2013

Rammstein - Ceci n'est pas un film


Molti registi sono anche grandi amanti della musica, alcuni solo da ascoltatori, altri anche come musicisti. E' questo il caso di David Lynch, il cui talento spazia dal cinema (come regista, attore, scenografo e scrittore), alla pittura ed alla musica d'avanguardia (ha pubblicato ben sette cd).
Le colonne sonore dei suoi film sono sempre molto curate, e di solito comprendono pezzi scritti apposta accanto a musiche non originali.

Nel suo film Strade Perdute (Lost highway, un complicatissimo dramma psicanalitico sulla personalità multipla strutturato come un nastro di Möbius, nel solco della più destabilizzante ed incomprensibile tradizione dell'autore, con un ottimo Bill Pullman), la colonna sonora include brani del suo collaboratore storico, il musicista Angelo Badalamenti accanto a pezzi di David Bowie, Lou Reed, Nine inch nails e Rammstein.

Il video d'autore di oggi è proprio dei Rammstein,un gruppo di industrial-dance-metal tedesco che basa la propria immagine sull'ambiguità di una immagine molto "potente" (che gli ha procurato spesso l'accusa di istigazione al nazismo) e di testi ricchi di contrasti e citazioni letterarie non banali. L'esibizione dal vivo è il punto forte della band, che fa grandissimo ricorso al fuoco come elemento scenico.

Nella clip si alternano inquietanti scene del film con una delle pirotecniche performance dei Rammstein, con il cantante che indossa un simpatico cappottino d'amianto al quale viene dato fuoco, con indubitabile effetto. Il cantante Till Lindemann può permettersi di dire - come e più di Laura Palmer - "fire walks with me"!




1997 - Rammstein
Artista: Rammstein
Regia: David Lynch
Album: Herzeleid (1995)

venerdì 25 gennaio 2013

Frankenweenie 2012 - Ci sarà


Frankenweenie richiama - anche nel nome - il cortometraggio girato da Tim Burton nel 1984. Come da lui stesso dichiarato in tempi non sospetti (ai fan consiglio il volume Burton on Burton, molto interessante per capire l'uomo oltre che l'artista), l'opera originale avrebbe anche potuto essere un lungometraggio, se solo la Disney ci avesse creduto un po' di più; il film - uscito di recente in Italia - rappresenta quindi la pellicola che Burton avrebbe fatto se avesse potuto.
L'etica e l'estetica sono tipicamente burtoniane, con il bianco e nero, il ragazzo talentuoso ma vagamente disadattato che - guardacaso - ha la passione per il cinema, un professore di scienze con le sembianze di Vincent Price, i suburbi sono abitati da persone perbene che però hanno il vizio di saltare alle conclusioni e lasciarsi trasportare un po' troppo dal "non si deve non si fa" (in tempi elettorali...occhio gente...). 
Non c'è dubbio che il film sia tecnicamente perfetto ed abbia richiesto uno sforzo straordinario: diversi anni di lavorazione con il coinvolgimento di una troupe sterminata composta da più di cento artisti solo per l'animazione dei pupazzi, che sono filmati in bianco e nero, animazione a passo uno ed in 3D (poco incisivo).


Frankenweenie è la storia, piena di divertenti rimandi e citazioni ai classici del cinema gotico, di Victor Frankenstein, un eccentrico ragazzino che ama sconfinatamente il suo cane Sparky. Quando questo muore in conseguenza di un'incidente, Victor lo riporta in vita utilizzando l'energia dei fulmini durante un temporale. I tentativi di mantenere segreto il successo dell'esperimento di rianimazione ovviamente non riescono ed i compagni di scuola di Victor, tutti impegnati in una gara di Scienze indetta dal professor Rzykruski (una sorta di versione dark del John Keating de L'attimo fuggente), tentano di copiare l'esperimento dando però vita ad un'invasione di mostri (che richiamano godzilla ed i gremlins), mentre la popolazione di benpensanti della cittadina di New Holland dà la caccia al povero Sparky.
Una volta sconfitti i mostri, il piccolo Victor si trova in pericolo in un mulino incendiato: per fortuna l'inseparabile cagnolino lo salva. A prezzo della vita?


Se nel 1984 la critica sociale e l'innovativa estetica di Burton (quelle incredibili casette con anche l'arredamento color pastello di Edward mani di forbice...) risultavano corrosive, dopo trent'anni hanno perso un po' mordente. Si trattava di tempi diversi: erano gli anni del riflusso, che non è una cosa schifosa che succede nell'esofago, ma il periodo storico in cui i giovani si sono stufarono del pauperismo degli anni 70 e da hippie divennero yuppie. Il 1984, per esempio, è stato l'anno in cui a Sanremo Al Bano e Romina spopolavano con Ci Sarà, un Maradona ventiquattrenne stava trasferendosi al Napoli ed al cinema guardavamo il primo Karate KidIl grande freddoFootloose e Greystoke la leggenda di Tarzan o, i più intellettuali, Paris, Texas di Wenders. Fabrizio Corona esisteva già, ma era impegnato a prendere la licenza elementare e per tutti quanti era solo il moccioso figlio di un grande giornalista direttore di King, un giornale di moda e gossip che comprava mia sorella su cui sbirciavo modelle ed attrici che nonostante capigliature cotonate, spalline improbabili e camicette con pois enormi sarebbero di lì a poco meritatamente assurte a paradigmi di bellezza nei successivi venti anni.


Il corto originale del 1984

Torniamo nel 2013: questa versione di Frankenweenie sa un po' di dejà vu, non ha da mostrarci nulla che non si sia già visto in qualcuno dei sedici film che l'hanno preceduto. Il film è divertente, poetico e dura il giusto ma mi sento di consigliarlo più a chi si accosta per la prima volte al cinema di Burton che ai suoi numerosi fans.
La speranza e l'augurio che mi sento di fare (dal mio piccolissimo) al regista è che, una volta messo questo punto e a capo nella sua filmografia, riesca a ripartire con una freschezza che da La sposa cadavere in poi è mancata un po' troppo spesso. Le capacità ci sono da sempre,  la passione pure da prima, mi sento autorizzato ad attendere un prossimo titolo spiazzante, complesso, entusiasmante e pieno di energia, tutte le qualità che da un quarto di secolo in qua hanno reso Burton uno dei registi più amati e non solo da me.



2012 - Frankenweenie
Regia: Tim Burton
Sceneggiatura: John August
Musiche: Danny Elfman
Montaggio: Chris Lebenzon, Mark Solomon
Fotografia: Peter Sorg
Scenografia: Rick Heinrichs


mercoledì 23 gennaio 2013

Django unchained - The D is silent


Buone notizie dall'inizio del 2013! Dopo un autunno avaro di pellicole di un certo interesse, con l'inizio del nuovo anno è in arrivo una notevole quantità di titoli carichi di aspettative, tanto che temo mi sarà difficile star dietro a tutto. L'inverno del nostro scontento sembra essere passato, almeno cinematograficamente.
Di Django Unchained avevo già detto qualcosa qui, ma dopo averlo visto c'è moltissimo da aggiungere; si pone come il secondo e "americano" episodio di una  trilogia di film "storici", iniziata con Inglorious Basterds e che si concluderà con Killer Crow, sulle gesta di una compagnia di soldati di colore subito dopo lo sbarco in Normandia (tema questo già affrontato da Spike Lee con il suo Miracolo a Santa Anna). 


Il concetto di film storico di Quentin Tarantino non passa per il filologico rispetto dei fatti, ma per la resa su schermo di un'atmosfera, un'idea di passato, con l'aggiunta di alcuni elementi pulp che da sempre caratterizzano lo stile dell'autore. Venendo al dunque, Django Unchained si propone come omaggio del regista al genere spaghetti western, in particolare a Django, mitico film di Sergio Corbucci con protagonista Franco Nero. Se nel film originale Django era un inquietante reduce dalla guerra di secessione che tornava a vendicare l'assassinio della moglie, trascinandosi dietro una bara dal misterioso contenuto, Tarantino ambienta il suo film qualche anno prima e centra il discorso sulla schiavitù (argomento evidentemente di moda, considerando la prossima uscita di Lincoln di Steven Spielberg). Django (Jamie Foxx, gran fisico) è uno schiavo di colore, che viene liberato da un eccentrico bounty killer tedesco, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz, molto divertente), affinchè lo aiuti a trovare ed uccidere tre ricercati. Dopo questa prima avventura, i due decidono di continuare a lavorare insieme fino al disgelo, quando si recheranno in Mississippi per tentare di liberare dalla schiavitù anche la moglie di Django, Broomhilda (Kerry Washington, molto in parte), che nel frattempo è stata acquistata da un ricco possidente del sud, Calvin Candie (Leonardo Di Caprio, a cui la barba dona assai). Lo scontro con la cultura schiavista del sud si rivelerà però molto difficile da sopportare, più per Schultz che per Django, fino allo scatenarsi della crisi finale dove non mancano sparatorie , botte, sangue e vendetta, com'è nella tradizione del genere e del regista.


Gli attori sono diretti benissimo, oltre a quelli già citati è un vero piacere rivedere gente del calibro di Bruce Dern, Don Johnson, con un buffo pizzetto, Robert Carradine, fratello più giovane dei più famosi David e Keith,  e James Remar (il papà adottivo di Dexter nell'omonima serie). Samuel L. Jackson merita un discorso a parte, capace com'è di dare sostanza alla storia interpretando un personaggio che è la vera anima nera del plot. Franco Nero fa una divertente comparsata nel ruolo del proprietario di un lottatore nero che viene sconfitto dal mandingo di Calvin Candie; Tarantino lo ha da subito voluto nel film come personale omaggio al Django del 1966.
Come Tarantino ci ha abituati, la colonna sonora è entusiasmante (il regista ha utilizzato per la colonna sonora diversi esemplari dalla sua collezione personale di vinili d'epoca) e mischia grandi pezzi del passato, si passa dal tema originale di Django cantato da Rocky Roberts alla canzone scritta a quattro mani da Elisa e Ennio Morricone,al tema di Trinità (!) senza dimenticare la musica nera, John Legend, 2pac e James Brown.


La colonna sonora è in effetti una metafora efficace del film: dentro c'è di tutto, quasi che Tarantino si sia un po' fatto prendere la mano: c'è violenza splatter quanto mai, tutto il discorso sullo schiavismo (l'utilizzo e la ricorrenza della parola "negro" è esasperante, diventa fisicamente fastidiosa ad un certo punto del film, un effetto che ho molto apprezzato per la sua efficacia: è evidente che per gli schiavisti i neri non sono uomini, visto che non li definiscono mai così), c'è un pezzo esilarante sul ku klux klan, con la scena degli incappucciati che criticano la fattura dei cappucci. 
Il film, come sempre in Tarantino, è ricchissimo di citazioni e rimandi ai film più diversi, nella pagina wikipedia dedicata al film se ne contano circa una ventina, ma a cercarle potrebbero certamente essere molte di più.
 Il film di Corbucci era molto più dark, mentre in questo ci sono maestose riprese in esterni con piantagioni sconfinate, montagne inaccessibili, insomma si può godere del meglio che il paesaggio americano ci mette a disposizione, fotografato in modo molto luminoso.Come nel Django originale, le strade, anche in città sono viscidi pantani di fango, c'è una donna frustata e c'è una missione da compiere.



Il film è lungo quasi tre ore (un trend del 2013?) che scorrono veloci come il fiume Mississippi. Il film  - più di altri - esibisce la violenza rendendola a tratti insopportabile a tratti ridicola. Nella tradizione del western ci son panorami spettacolari, pistoleri velocissimi e letali, vecchi sdentati e negrieri spietati. Alcune sequenze rimarranno negli annali: le mie preferite sono il lunghissimo pianosequenza iniziale con gli schiavi incatenati, lo spruzzo di sangue sui fiori di cotone, la scena dell'uccisione del ricercato che sta arando il campo. Da manuale di sceneggiatura la scena della cena a casa Candie, che parte scanzonata e via via si fa più tesa, e fino all'ultimo non si sa se finirà in una bolla di sapone (come nella famosa sequenza della Sachertorte dello strudel in Inglorious Basterds) o in una carneficina.
Se da una parte il film ci rende orgogliosi - come Nazione - per essere stati capaci di reinterpretare così bene un genere tipicamente yankee che un regista a stelle e strisce lo prende ad ispirazione, dall'altro ci si potrebbe domandare quali strumenti abbia lo spettatore medio americano  per cogliere le finezze, come le musiche o come i passi di dressage che Django fa fare al cavallo nel finale, riprese pari pari da Lo chiamavano Trinità... La domanda evidentemente è oziosa: il box office sta premiando il film, i cui incassi hanno  già quasi doppiato il costo di produzione. 
Evidentemente - citazioni o no - il buon cinema non può non piacere!

2013 - Django Unchained
Regia: Quentin Tarantino
Fotografia: Robert Richardson
Scenografia: J. Michael Riva
Costumi: Sharen Davis
Montaggio: Fred Raskin



lunedì 21 gennaio 2013

Cloud atlas - la musica dell'anima


A proposito di Cloud Atlas ci eravamo lasciati qualche tempo fa con un interrogativo: non si tratterà mica di una "incoerente vaccata"?  Devo ammettere che all'ingresso in sala (brulicante di pubblico, non sarà che la crisi del box office è dovuta alla carenza di titoli accattivanti?) la mia vocina interiore mi suggeriva il dubbio di aver comprato un biglietto per tre ore di delirio senza capo nè coda, e invece (bisogna essere pronti a ricredersi da quello che suggerisce la vocina interiore) dallo spegnersi al riaccendersi della luce non ho mai sentito la voglia di essere da un'altra parte, immerso in una storia frammentata ma coerente.

Susan Sarandon

Il film è la trasposizione cinematografica del romanzo Cloud Atlas dello scrittore inglese David Mitchell, opera divisa in sei capitoli ambientati in epoche diverse, per riassumere diciamo che è un'opera che parla di reincarnazione e di prevaricazione.
Cloud Atlas si è guadagnato la nomea del mito da ben prima dell'uscita: il progetto, estremamente ambizioso, ha richiesto l'esorbitante budget di oltre cento milioni di dollari, le difficoltà  a reperire l'intera cifra necessaria hanno fatto sì che la lavorazione sia stata più volte interrotta. I registi si sono spartiti il lavoro e le locations: Tom Tykwer ha girato tre degli episodi: i due girati nel secolo scorso e quello ai giorni nostri, mentre Andy e Lana Wachowski si sono occupati di quello ambientato nell'800 e dei due ambientati nel futuro.

Jim Broadbent e Ben Whishaw

I sei episodi sono ambientati come si è detto in epoche diverse, ciascuno di essi è dedicato ad una diversa declinazione del concetto di prevaricazione. Gli attori compaiono in ruoli più o meno importanti in tutti gli episodi contribuendo a mantenere il "filo concettuale" che lega tutte le vicende. Il primo episodio è dedicato al razzismo ed ambientato verso la metà dell'800, vi si narra di un giovane avvocato in viaggio per mare che aiuta un clandestino nero ad essere accettato a bordo e ne nasce una solida amicizia. Nell'episodio successivo, dedicato all'omofobia (con un'accenno di antisemitismo nel personaggio di Halle Berry), un giovane compositore rifiuta di farsi ricattare dall'anziano e famoso musicista presso cui lavora, Il terzo capitolo, a tema manipolazione dell'opinione pubblica vede una avvenente giornalista alle prese con un complotto per creare ad arte un disastro atomico.

Hugh Grant

L'episodio ambientato nel 2012 ha come sfondo la discriminazione verso i vecchi; vede un'anziano editore in difficoltà fatto rinchiudere dal fratello (uno Hugh Grant superlativo) in un ospizio-lager dal quale tenterà di evadere in compagnia di altri avventurosi vecchietti (la comica finale è meravigliosa). Nell'episodio ambientato nella futura NeoSeul (dedicato allo sfruttamento lavorativo) una replicante acquista coscienza di sè e tenta di cambiare il sistema in compagnia di un gruppo di ribelli, nell'episodio finale ambientato in un imprecisato  futuro con il mondo tornato ad una sorta di preistoria un selvaggio ma affettuoso padre scopre che la dea in cui ha sempre creduto era in realtà una persona in carne ed ossa e lotta contro il proprio demone interiore. Quest'ultimo episodio è stato da molti interpretato come un attacco alla religione, ma io ci vedo piuttosto la lotta contro la parte oscura di sè, per liberarsi dalla convenzione e dall'omologazione.

Tom Hanks

Della regia si è detto, due troupe quella americana e quella tedesca hanno lavorato in parallelo, il compito di dare unitarietà e ritmo ad un materiale di partenza così disomogeneo è stato affidato ad  Alexander Berner (Alien vs Predator, 10.000A.C., I tre moschettieri del 2011) il cui montaggio è magistrale: mentre nel romanzo gli episodi sono raccontati per intero uno dopo l'altro, nella versione cinematografica si salta con volo pindarico da un tempo all'altro, e da una storia all'altra seguendo il fluire delle idee e dedicando tempi e mettendo gli accenti là dove serve per tenere sempre alta la soglia di attenzione.
Trattandosi sostanzialmente di sei corti assemblati in un'opera più maestosa, tutta la crew produttiva merita il plauso per la convinzione con cui ha svolto il proprio lavoro; tutto dalla scenografia ai costumi è curato nel dettaglio e fa sì che lo spettatore sia sempre in grado di capire immediatamente in quale momento ed in quale storia ci troviamo.
Il make-up la fa da padrone, regalando facce sempre diverse ai vari personaggi, anche se devo dire che la scelta di "orientalizzare" Jim Sturgess e Hugo Weaving, così come quella di occidentalizzare Doona Bae nel primo episodio, anche se comprensibile per mantenere il concetto di ricorrenza della reincarnazione, dà luogo a risultati piuttosto ridicoli.

Halle Berry e Keith David

Alcune scene sono già culto: quella in cui lo scrittore alla festa sorprende il critico, quella al pub nel quale i vecchietti in fuga trovano rifugio, quella dove il clandestino Autua lotta per la vita mostrando come si fa a spiegare la vela.
Tykwer ed i Wachowski giocano con i generi, passando dalla black comedy alla fantascienza, dall'azione allo storico al postatomico mischiando in continuazione le carte con citazioni (ed autocitazioni: tutta la parte dei replicanti di NeoSeul è una possibile rilettura di Matrix), tuttavia, nonostante allo spettatore sia richiesto di cambiare in continuazione il contesto ed i vari episodi siano stati girati in modo completamente disgiunto, il film ha una sua solidità che aiuta a tenere il filo del discorso, dopo un inevitabile momento di iniziale disorientamento.

David Gyasi e Jim Sturgess

Entrato prevenuto, devo dire che sono uscito cogitabondo: anche se il film non mi ha entusiasmato, non si può non riconoscergli capacità tecnica (della quale però non ho mai dubitato), ed il pregio di andare dritto al punto senza perifrasi. Tuttavia, una costruzione (ed una produzione) così colossale è al servizio di un messaggio piuttosto puerile, si tratta insomma di un film più complicato che complesso, tutto incentrato sulla risposta più che sulle domande. Non ci ho trovato alcuna traccia di dubbio, di ambiguità, di riflessione, il che se a spettatori più giovani di me può forse apparire un pregio, ad un occhio più maturo ne fa un film non inconcludente ma un po' superficiale. Intendiamoci, il messaggio non è sbagliato, ma tre ore piene per sentirsi ripetere più volte (quasi che gli autori volessero essere ben sicuri che abbiamo capito) che il bene ed il male che si fanno restano, modificando il mondo da uno dei mille possibili a quello reale mi pare restare un po' sulla superficie, oppure mirare ad un pubblico a cui la vita non ha ancora imposto il compromesso.
Per chiudere: le tre ore passano senza fatica, i fratelli Wachowski (ed il loro sodale Tykwer) quando vogliono sanno come fare un bel film. Ne sono uscito dicendo "tutto qui?" però poi ci ho ponzato su per qulache giorno. Può darsi che nel film ci sia qualcosa di più di quello che colpisce l'occhio, vale comunque il prezzo ed il tempo spesi per vederlo.

Doona Bae e Jim Sturgess



2012 - Cloud Atlas
Regia: Andy & Lana Wachowski, Tom Twiker
Montaggio: Alexander Berner
Fotografia:  John Toll, Frank Griebe  
Scenografie: Hugh Bateup, Uli Hanisch  
Costumi: Kym Barrett, Pierre-Yves Gayraud  




martedì 15 gennaio 2013

Director's ads - Gucci guilty / Frank Miller



La maison Gucci nel 2010 ha ingaggiato per il proprio progetto di advertisement nientemeno che il creatore di fumetti Frank Miller, autore di moltissimi albi di Batman (fra cui la graphic novel che ha ispirato tutto il recente lavoro di Nolan) e della saga di Sin City, di cui è stato anche acclamato co-regista della versione cinematografica (il film era proprio bello, ve lo consiglio, mentre purtroppo il suo secondo film The Spirit è una gran...delusione).

Il prodotto è il profumo Guccy Guilty, che ha una versione pour femme ed una pour homme; quale migliore occasione dunque per realizzare due spot con gli stessi personaggi, una bionda mozzafiato interpretata da Evan Rachel Wood ed un rude motociclista interpretato da "Captain America" Chris Evans?


Nella versione for her, incentrata sui toni oro, Evan Rachel Wood guida una rombante spider fino ad un bar nel quale sente - letteralmente - a naso l'arrivo di Chris Evans, al quale ruba un ciondolo dopo una notte di passione.
Nella versione for him la storia è la stessa, ma i tono sono argento ed il punto di vista è quello dell'uomo che guida una moto infuocata, ed al mattino successivo avrà preso per ricordo il bracciale della donna.

La colonna sonora, molto azzeccata,  è in entrambi i casi Strangelove dei Depeche Mode, ma nella versione for her è interpretata con voce maschile dai Friendly Fires, mentre nella versione for him è cantata da Bat for lashes (cioè Natasha Kan).

Le atmosfere del le clip sono esplicitamente ispirate all'immaginario di Sin city (a proposito entro l'anno dovrebbe arrivare Sin City 2, con la regia di Robert Rodriguez), con le atmosfere futuriste e la immancabile dark lady.
Evan Rachel Wood è come sempre sexyssima, mentre Chris Evans trovo abbia una faccia troppo poco "vissuta" per essere uno che guida una moto che fa fuoco e fiamme al suo passaggio. Ma in fondo la storia è sempre quella del ragazzo di campagna che si dà delle arie da duro mentre cade nella diabolica ragnatela di una bionda con la faccia d'angelo ed il cuore di pietra!

Insomma nei due minuti (complessivi) degli spot c'è dentro un sacco di roba, quindi mi taccio e vi lascio alla visione di queste magistrali clip. Per la fan di Chris Evans qui trovate un'intervista dietro le quinte dello spot. Buon divertimento!





Spot: Gucci Guilty
Anno: 2010
Prodotto: Gucci Guilty
Regia: Frank Miller
Musica: Friendly Fires - Bat for lashes




mercoledì 9 gennaio 2013

Here with me - Ceci n'est pas un film


Nell'attesa dell'ormai imminente Frankenweenie lungometraggio, Tim Burton torna a lavorare con i Killers realizzando il video del loro nuovo singolo Here With Me.

Se nel primo lavoro Bones, Burton si era divertito a giocare con gli scheletri in questo realizza un vero e proprio corto rispolverando un altro dei suoi temi favoriti: l'amore (apparentemente) impossibile fra un adolescente dall'aria un po' troppo pallida ed una irraggiungibile celebrità. 
Il giovanotto, ossessionato dalla diva, ne ruba una riproduzione di cera a grandezza naturale e, dopo averla portata un po' al mare e a ballare le offre una cena a lume di candela tanto romantica quanto inconsueta.

Nel frattempo i Killers si esibiscono in un teatro suonanodo questa canzone strappalacrime sul rimpianto di un uomo dopo la fine di un amore.


Il video è stato girato in Inghilterra a Blackpool, località di svaghi balneari e città natale di Robert Smith dei Cure (sarà solo un caso o il genere gotico è connaturato con quel luogo?), ed ha per protagonisti il Giovane Craig Roberts (Jane Eyre) ed una delle muse più intramontabili di Burton: la deliziosa Wynona Rider.
Il video - manco a dirlo - è meraviglioso, ed oltre all'universo burtoniano a mio avviso pesca qualcosa anche dal cult movie Harold e Maude per la  caratterizzazione del ragazzo.

Notate (nella foto sopra) i fantastici divanetti a forma di autoscontro nel diners dove lui vedeWynona in tutti i personaggi.
Il primo video è un "dietro le quinte", dove si vede quanto si divertono gli attori ed il regista, il video sotto è il risultato finale.
Se Burton in questo periodo è in palla così, Frankenweenie riconcilierà i fans vecchi nuovi con l'autore americano (che con Alice sembrava aver perso qualche colpo).




2012 - Here with me
Artista: The Killers
Regia: Tim Burton
Album: Battle born




lunedì 7 gennaio 2013

La migliore offerta


La migliore offerta è il nuovo film di Giuseppe Tornatore (sua anche la sceneggiatura), a cui ho dedicato la mia prima uscita al cinema dell'anno 2013; dopo il successo di La sconosciuta l'autore italiano ripropone una ambientazione mitteleuropea utilizzando Vienna come location principale, con un cast più che mai internazionale che comprende, oltre al protagonista Geoffrey Rush, anche un mito vivente come Donald Sutherland ed un giovane emergente come Jim Sturgess (The Universe, il prossimo Cloud Atlas). La protagonista femminile è l'olandese Sylvia Hoeks e segnalo la presenza, pur in una parte piccola, della modella e attrice etiope Liya Kebede, bellissima.


La trama racconta del bisbetico indomabile, antiquario e richiestissimo battitore d'asta Virgil Oldman (Rush), che si ritrova coinvolto da una misteriosa e invisibile donna, Claire Ibeson (Hoeks), nella valutazione e dell'immenso patrimonio in mobili, quadri e oggetti d'arte. Oldman, che non si lascia contaminare da contatti umani di sorta (frequenta sempre egli stessi locali nei quali utilizza stoviglie personalizzate, indossa sempre i guanti, di cui possiede una sterminata collezione, riveste il telefono con un fazzoletto per non contaminarsi con i betteri presenti nella cornetta), in un primo momento rifiuta l'approccio quantomeno inusuale della Ibeson, lasciandosi però lentamente conquistare dalla giovane, che si scopre essere malata di agorafobia al punto da vivere all'interno della vecchia villa di famiglia in una sorta di "panic room". Nel corso del suo lavoro nella vecchia casa Oldman rinviene alcuni misteriosi ingranaggi, che secondo il giovane "aggiustatutto" Robert (Sturgess) appartengono ad un famoso automa parlante del 1700. Robert diventa confidente e consigliere  di Virgil , approfondendo l'amicizia man mano che il rinvenimento dei pezzi dell'automa permette di ricostruirlo. Nel frattempo Oldman, in combutta con Billy, un pittore suo amico, acquista alle aste diversi quadri con i quali riempie una stanza segreta che funge da museo personale. Fra passi avanti e indietro finalmente sboccia l'amore fra Oldamn e la giovane Claire, fino a che il ritiro dall'attività di Virgil dopo una importante asta a Londra non si rivelerà l'evento catalizzatore di una sorpresa nella quale tutti i personaggi saranno coinvolti.


Il film si regge prevalentemente sulla prova attoriale di Rush, praticamente in sempre in scena, ma anche i comprimari sono azzeccati per la propria parte. Degno di grande lode è il lavoro dello scenografo Maurizio Sabatini (La tigre e la neve, Baarìa), dalla magnificenza imperiale dei ristoranti viennesi, al lusso asettico e razionale della casa di Virgil, al disordine romantico della villa Ibeson, ogni ambiente è lo specchio fedele di chi ci vive; numerossissime e bellissime le opere d'arte che vengono mostrati (la stanza-bunker di Virgil è zeppa di capolavori), i costumi sono altrettanto rispondenti al carattere dei personaggi quanto le ambientazioni; in particolare l'eleganza classica con una punta di eccentrico di Oldman la trovo perfettamente aderente al personaggio.
Rinnovando la abituale collaborazione con Tornatore, la colonna sonora è composta da Ennio Morricone.


Come abbiamo visto, sotto l'aspetto tecnico la pellicola è realizzata con grande cura, e dal punto di vista artistico gli attori sono capaci ed azzeccati, eppure i conti non tornano: la storia non funziona, non coinvolge, i meccanismi, al contrario di quelli dell'automa messo insieme da Robert, non girano in modo fluido. I temi (amore, morte, finzione: la "mezogna" dell'arte cara a Tornatore) sono trattati in modo a dir poco didascalico, con il personaggio di Virgil ("virgin") Oldman graniticamente astuto sul lavoro e inesorabilmente stupido in amore. Anche gli altri personaggi lasciano spesso perplessi: quando Claire dopo aver urtato il piede contro un tavolo non trova di meglio che succhiarsi l'alluce le braccia di più di uno spettatore rischiano di cadere fragorosamente sul pavimento della sala. Non sto a citare tutti i momenti che non convincono, basti questo esempio per dire che la sceneggiatura è stereotipata e non una sola delle riflessioni iniziate trova una soluzione. Impiegare 124 minuti per dire confusamente  quello che un mio amico con il dono della sintesi ha definito: "le donne son tutte troie" è davvero troppo. Oltre - immagino - a non essere il vero messaggio che l'autore intendeva comunicare, considerandolo sforzo in termini di mezzi, artisti e budget che ha richiesto La migliore offerta direi che era lecito aspettarsi molto di più.


Tornatore non ha di certo perso il talento registico che tutto il mondo gli riconosce, ma è messo a servizio di un testo superficiale, poco convinto, con personaggi raffazzonati e un finale da dimenticare. Un vero peccato, dal momento nonostante l'ottimo lavoro fatto in tutte le altre parti del film, rende la pellicola inconsistente.
Se siete appassionati d'arte o fan di Geoffrey Rush andate a vederlo, in tutti gli altri casi si può passare oltre senza rimpianti.



2013 - La migliore offerta (The best offer)
Regia: Giuseppe Tornatore
Musiche: Ennio Morricone
Fotografia: Fabio Zamarion
Scenografia: Maurizio Sabatini
Costumi: Maurizio Millenotti