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venerdì 22 febbraio 2013

Gambit - una truffa a regola d'arte


Finalmente un film di pura evasione, divertente e a suo modo raffinato; Gambit è riscritto molto bene dai fratelli Cohen partendo da un film del 1966 con Michael Caine e Shirley MacLaine, .
Il remake ha una storia produttiva piuttosto tormentata, se ne è parlato a più riprese fin dal 1997 ipotizzando i registi più diversi, da Altman a Liman a Welch. I Cohen hanno iniziato a interessarsi alla sceneggiatura nel 2003 e in un primo momento a fianco di Colin Firth avrebbero dovuto esserci Jennifer Aniston e Ben Kingsley. Finalmente nel 2010 si è iniziato a girare e le scelte di casting si sono rivelate piuttosto fortunate, come vedremo. Un lavoro da onesto professionista anche per Michael Hoffman, il regista (Game 6 e Last Station).


La trama
La storia vede tre truffatori tradizionalmente abbastanza improbabili, un pittore falsario, una texana campionessa di rodeo e un mite ed impacciato storico dell'arte; Harry,  che vuole vendicarsi dell'insopportabile tycoon dei media per il quale lavora, tentando di rifilargli un Monet falso. Harry ha elaborato meticolosamente il piano perfetto, sicuro che seguendolo a perfezione tutto finirà nel migliore dei modi. Ovviamente anche il piano più raffinato deve scontrarsi con l'imprevedibile, e in questo caso più che mai oltre agli imprevisti che creano situazioni comiche, i protagonisti dovranno lottare contro il sospetto e la sfiducia reciproci, per giungere ad un finale nel quale non si può mai essere sicuri che dietro l'angolo non sia pronto l'ennesimo colpo di scena.


Gli attori
Colin Firth: perfetto nella parte dell'inglese amante dell'arte, impacciato e perbenista. Fin dall'inizio viene chiaramente separata l'immagine che il suo personaggio ha di sé con la visione che ne hanno gli altri, con effetti esilaranti.
Cameron Diaz: come sempre bella e simpatica, efficacissima nel rappresentare la texana ignorante ma di grande senso pratico, PJ Puznowski. Dal punto di vista fisico temo stia involvendo in una sorta di sindrome di Madonna/Iggy Pop: l'età non si può cancellare ricorrendo al culturismo, fatevene una ragione!
Alan Rickman: i ruoli di viscido e cattivo gli vengono proprio benissimo, tuttavia il suo Lionel Shahbandar ha anche dei tratti simpatici. Non perdetevi l'ultima inquadratura, è tutta per lui!
Stanley Tucci: se continua così ancora per un film o due mi vedrò costretto a inviargli un vasetto di peperoncini ripieni di acciuga come gesto di ammirazione. La prosopopea del critico d'arte che sproloquia di colori, impasto e tratto in-con-fon-di-bi-le è semplicemente irresistibile!
Tom Courtenay: in questi giorni è ancora sugli schermi con il bel Quartet di Dustin Hoffman. Raffinato come sempre, grandissimo quando tira di boxe nel saloon in Texas.
Cloris Leachman: un ruolo del tutto minore come nonna di PJ, ma è fantastica nella rappresentazione della provinciale teledipendente. Non resisto a farvi notare che fu lei a interpretare la mitica Frau Blucher di Frankenstein JR.


In conclusione
Non arrivate in sala in ritardo: i titoli di testa sono a cartone animato e non se ne fanno più molti di così belli.
A parte questo, Gambit non è un solo film, ce ne sono almeno tre: un classico film dei fratelli Cohen con personaggi ed ambientazioni dell'America profonda, una commedia in stile Pantera Rosa ed infine una classica truffa, imprevedibile e geniale. I Cohen - come sempre- si divertono a disseminare citazioni qua e là, ma il film funziona anche se non le si coglie (e di sicuro io non le ho trovate tutte). Alcuni espedienti, come i businessmen giapponesi non sono particolarmente originali, ma  sono divertenti lo stesso. La lunga serata ambientata al Savoy ha proprio il sapore delle commedie di una volta.
Ecco, il punto del film è proprio qui: Gambit è un film degli anni 60 trasportato ai giorni nostri, come un moderno Come rubare un milione di dollari e vivere felici. Lo consiglio fortemente per una serata scacciapensieri di puro relax, il classico pizza-birra-cinema (cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non varia), uno di quei film che riconciliano con l'intrattenimento leggero senza essere sciocco.


2012 - Gambit (Una truffa a regola d'arte)
Regia: Michael Hoffman
Sceneggiatura: Joel e Ethan Cohen
Scenografia: Stuart Craig
Costumi: Jenny Beavan

mercoledì 1 febbraio 2012

La talpa - Tinker, Tailor, Soldier, Sailor, RichMan, PoorMan, BeggarMan, Thief


Tomas Alfredson, il regista svedese dell'inquietante e (a suo modo) poetico Lasciami entrare passa dalle atmosfere nordiche a quelle plumbee della guerra fredda nei primi anni 70. 
Preceduto da un battage pubblicitario piuttosto convinto, Tinker, Tailor, Soldier, Spy sfoggia un cast di pezzi da novanta britannici, un soggetto tratto da un romanzo di John Le Carré, e una produzione che non lesina in fatto di risorse.

Tailor
La trama di per sé non è complicata: si narra di una riorganizzazione ai vertici del servizio segreto inglese (detto in gergo "il circus") in seguito al sospetto che nell cerchia dei dirigenti si sia infiltrata una talpa al servizio di Karla, il capo del servizio segreto sovietico. George Smiley, un agente del MI6, viene in un primo momento allontanato dal servizio per poi essere incaricato dal ministro in persona di indagare segretamente per scoprire l'identità del traditore, che può essere solo uno dei quattro massimi dirigenti rimasti:  Percy Alleline (Tinker), il capo del "circus", Bill Haydon (Tailor), capo della sezione londinese, Roy Bland (Soldier), capo della sezione paesi oltrecortina, e Toby Esterhase (Poorman) ex agente sovietico sfuggito alle epurazioni ed ora a capo della sicurezza interna.   La vicenda porterà Smiley in contatto con un presunto disertore, il nerboruto agente Ricky Tarr, ricercato da tutti in quanto si presume conosca l'identità della talpa. Le indagini aprono un vero e proprio vaso di pandora, in cui tutte le pecche caratteriali degli integerrimi dirigenti del MI6 vengono impietosamente alla luce. Il metodico Smiley porterà a conclusione, come ovvio, la propria missione, anche se vi sono domande a cui dare una risposta può costare molto caro.

Smiley ed il suo delfino Peter indagano

La trama, come dicevo poc'anzi, di per sè non è complessa, ma il montaggio che spezzetta l'azione sia nel tempo che nello spazio rende quasi impossibile ripercorrere correttamente il filo della vicenda. Nulla di strano: essendo un film sullo spionaggio niente è mai esattamente come sembra e nessuno è proprio come appare da fuori. Ciò che conta in questo film è l'atmosfera: nessuno si fida fino in fondo di nessun altro (e chi lo fa sbaglia), ciascuno cerca di tenere coperte le proprie mosse e tutti (o quasi) hanno un secondo fine: la carriera, un amore, il proprio orgoglio personale da nutrire.

Il mondo de La Talpa è fatto di funzionari pignoli, di analisti pazienti più che di agenti spericolati, anche se come Ricky  Tarr sa, a volte occorre saper sporcarsi le mani.
Lo spionaggio della guerra fredda è una battaglia a scacchi, una lotta a distanza le cui armi sono la forza di volontà e l'intelligenza; è un mondo che ha perso completamente i valori morali e in cui il senso ultimo della battaglia non è certo l'affermazione di un diverso "way of life" (infatti gli agenti non si fanno troppi scrupoli a cambiare parte quando necessario), quanto la dimostrazione della propria superiorità intellettuale.

Il "Controllo" logora chi non ce l'ha

Il cast è esclusivamente europeo, in larga prevalenza anglosassone, le interpretazioni sono tutte di altissima caratura.
George Smiley è impersonato da Gary Oldman (uno dei pochi a diventare, da vivo, un punto di riferimento per una intera generazione di attori, un po' come è successo anche a Sean Penn). George Smiley è il tipico funzionario, anonimo nell'aspetto, preciso, metodico e con una memoria di ferro. Oldman regala a Smiley un aspetto inquietantemente simile a quello di Giulio Andreotti e un volto segnato da oscuri rimpianti.
Colin Firth nella parte di "Tailor" si conferma in un periodo di grazia, un sorriso falsamente imbarazzato è il biglietto da visita di un personaggio che ha molto da nascondere. Il look è elegantissimo.
Tom Hardy, ancora carico dei muscoli messi su per il recente Warrior, è Ricky Tarr, il tormentato agente operativo. E' dai tempi di Black Hawk Down che non sbaglia una mossa, e sembra non avere fretta di emergere. Speriamo non si perda ora che è lanciato.

Ricky Tarr, il duro con un cuore

Altre interpretazioni degne di nota sono quelle di Mark Strong (nome non d'arte, perché l'ha cambiato all'anagrafe, però alla nascita si chiamava Marco Salussolia, di padre italiano, è solo un dettaglio ma me lo rende simpatico); uno degli attori feticcio di Guy Ritchie, apprezzato anche da Ridley Scott (per esempio in Robin Hood). Qui interpreta un commovente agente Prideaux, un uomo che fa il proprio dovere fino in fondo, pur in forte contrasto con i propri sentimenti.
Infine John Hurt (che ricordiamo nel ruolo di Winston Smith in Orwell 1984 di Michael Radford, un sacco di film con Von Trier, una carriera comunque troppo lunga per poter essere riassunta in pochi titoli).
Benedict Cumberbatch trova nel ruolo, tutto sommato secondario, di Peter Guillam una consacrazione al fianco dei più famosi colleghi. E' uno degli uomini del momento: appare nel cast,oltre che de La Talpa, di War Horse e del prossimo Lo Hobbit, oltre ad essere il protagonista della recente serie TV di Sherlock Holmes rivisto in chiave moderna.

Esterhase e Smiley alla resa dei conti

Nonostante l'apparenza di efficienti funzionari pubblici, le spie di Le Carré combattono in primo luogo contro i propri sentimenti, che devono necessariamente essere repressi per non mostrare punti deboli. Le vulnerabilità, tuttavia, non smettono di esistere solo perchè vengono nascoste: covate sotto forma di senso di colpa, di rimpianto, di rimorso si troveranno prima o dopo a deflagrare tanto più forti quanto più sopite.


George Smiley - parente di Andreotti?

Il film è illuminato da una luce livida, i colori paiono attutiti, stemperati in un grigiore che pervade tutto, quasi fosse la materializzazione del tentativo delle spie di non farsi notare e della cappa di pesantezza che incombe su tutti coloro che hanno qualche attinenza con il "circus".
Il colore irrompe collegato all'espressione dei sentimenti, sia in Turchia nella love story di Ricky Tarr, sia - in modo piuttosto evidente - nella sequenza finale in cui Smiley si riapproria di un circus finalmente purgato dalla cappa di invidie e sospetti nella quale era precipitato.

In sintesi un film un po' in controtendenza, con senso di misura nell'azione ed un ritmo non incalzante. Chi per "spy story" intende film alla Mission Impossible resterà deluso, chi invece ricorda con ripianto i tempi de Il giorno dello sciacallo ne resterà entusiasta. Personalmente l'ho trovato divertente e interessante per lo sguardo di scorcio sugli anni 70 che nel cinema italiano sono sempre stereotipati sugli anni di piombo o sulla banda della Magliana. Un'occhiata oltre frontiera non può che far bene!

Gary Oldman - Smiley, al posto che gli compete

giovedì 10 febbraio 2011

Il discorso del re - The king's speech


E’ un Albert-Giorgio VI piuttosto preoccupato quello che si accinge a pronunciare un discorso davanti al microfono che, dallo stadio gremito di gente dove si trova, trasporterà la sua voce in tutto il regno attraverso la radio. E come scopriamo subito, ha i suoi buoni motivi visto che è affetto da balbuzie fin dalla più tenera infanzia. Il discorso si risolve in un disastro, ma Albert affronta l’umiliazione con dignità davvero regale. Si vedrà nel prosieguo che ha la grande dote di essere uomo di fegato.

Il film di Tom Hooper (Il maledetto united, Red dust con Hilary Swank) che si avvia a far man bassa di premi ai prossimi Oscar, pur non essendo un capolavoro dal punto di vista artistico, ha il pregio di piacere a tutti senza essere banale, il che non ci sembra poco.
In alcune sale la pellicola è proiettata in versione originale sottotitolata, per coloro che conoscono l'inglese ci sentiamo di consigliarla.

La trama segue le vicissitudini di Albert di York, figlio cadetto di re Giorgio V, alle prese con le difficoltà nel sostenere un ruolo pubblico al confronto con un genitore energico ed un fratello (David-Edoardo VIII) brillante. Per ovviare al difetto di pronuncia, giudicato limitante a fronte dell’avvento della comunicazione di massa, si sottopone a estenuanti quanto ridicole cure presso i migliori specialisti. Quando ormai sembra aver perso ogni speranza, la devota moglie Elizabeth – la futura popolarissima Regina Madre – scova un eccentrico logopedista australiano, Lionel Logue, a fianco del quale Albert inizierà un percorso di cura che porterà alla radice del problema, cioè l’aspetto psicologico. Alla morte di Giorgio V , David-Edoardo VIII ascende  al trono ma vi rinuncia dopo pochi mesi per convolare a nozze con Wallis Simpson, americana anticonformista (a essere gentili) e pluridivorziata.
Albert, suo malgrado, si trova a regnare in tempi particolarmente duri. Dovrà pronunciare un difficile discorso radiofonico in occasione dell’entrata in guerra del Regno Unito contro la Germania di Hitler.  A dispetto delle differenze di classe, delle incomprensioni personali e delle resistenze della corte, Lionel e Albert, due amici, due persone, uniranno gli sforzi nel tentativo di consentire al re, con il proprio discorso, di trasmettere fiducia e coraggio alla nazione intera.
La storia ci dice che i due rimasero amici per tutta la vita.

Dal punto di vista tecnico il film è interessante, senza strafare. Le scenografie sono efficaci, sia nel lusso senza eccessivo sfarzo dei palazzi reali, sia nello spoglio studio di Logue. I costumi maschili sono di grande eleganza, quelli femminili, a nostro giudizio, peccano di eccessivo understatement. Le inquadrature durante i discorsi pubblici di Albert si fanno avvolgenti e deformano il pubblico in modo ansiogeno per rappresentare le paure di Albert.

Fra gli interpreti segnaliamo un Colin Firth magistrale nell'interpretazione di Giorgio VI; Geoffrey Rush nel ruolo di Lionel Logue non cede alla tentazione di caricare il lato dissacratorio del proprio personaggio mentre Elena Bonham Carter, dopo gli ultimi film di Tim Burton e la saga di Harry Potter, ha finalmente a disposizione un ruolo - Elizabeth di York -che le rende giustizia e non si lascia scappare l’occasione per regalarci un’ottima interpretazione! Infine Guy Pearce regala la propria faccia da… impunito a un convincente Edoardo VIII.

Il film, come già visto in Invictus di Clint Eastwood, analizza un preciso episodio della vita di un personaggio storico. Ci troviamo forse all’inizio di un filone di cinema “agiografico”? Lo sapremo nei prossimi anni.
Quello che colpisce nella pellicola di Hooper è la serietà dei personaggi. Sono però seri, non seriosi. Ciascuno (eccetto Edoardo VIII che sceglie di privilegiare la vita privata) è cosciente del proprio ruolo e non si concede personalismi. Albert Giorgio VI è un leader “vulnerabile”, ha piena coscienza dei propri limiti, nutre dubbi sulle proprie capacità e tuttavia non rinuncia a lottare nonostante le ripetute umiliazioni. Non è facile per nessuno essere all’altezza del proprio ruolo, non è facile essere un leader; ma anche se la vita non va come previsto, l’unico modo per farcela è mettersi costantemente in gioco, senza indulgere all’autocommiserazione. Una “regale” lezione, tanto più convincente, visto che la storia è vera!

Secondo Sabatini-Colletti la definizione di Maestoso è “Che manifesta o denota maestà; che suscita ammirazione e rispetto”. Sia per la regia che per screenplay, interpretazione e - soprattutto - personaggi, quale aggettivo migliore di questo?