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venerdì 24 agosto 2012

If a man answers...cominciano i guai!


This gun for hire, oltre che un bel film con Veronica Lake e Alan Ladd, è il nome del servizio di recensioni à la carte di questo blog. Questa è stata richiesta per Lara e Virgilio che domenica convoleranno a nozze, e la scelta del film mi pare piuttosto azzeccata.
Una sposa per due (titolo originale If a man answers) è una commedia romantica per certi versi un po' diversa dal solito. La protagonista è la giovane Chantal figlia di una ex ballerina delle Folies Bergère e di un posato uomo d'affari di Boston. Spinta al matrimonio dal padre stufo di aspettarla sveglio fino alle ore piccole quando esce con i numerosi ragazzi che la corteggiano, e cogliendo al volo il trasferimento per motivi di lavoro della famiglia a New York, Chantal in breve tempo rimorchia il brillante fotografo Eugene, e grazie ai saggi consigli della madre Germaine in breve tempo riesce a farsi sposare.

In amor vince chi fugge...

Il matrimonio però, lungi dall'essere una conclusione si rivela un cammino irto di difficoltà, prima fra tutte il calo di attenzione del giovane Eugene. Chantal ricorre ancora una volta all'aiuto della madre, e viene rivelata la vera idea geniale del film: si scopre che l'esperta Germaine ha impostato il rapporto con il marito seguendo fedelmente i consigli di un manuale di addestramento per cani! Ovviamente il sistema funziona a meraviglia anche per Chantal, fin quando l'invidiosa amica Tina non svela il segreto a Eugene, il quale da uomo tutto d'un pezzo degli anni 60 non può far altro che offendersi. Ancora una volta Chantal ricorre al consiglio materno e in base alle indicazioni di Germaine, si inventa un amante, un certo Robert Swan, allo scopo di far ingelosire Eugene. La situazione precipita quando ritornando a casa Chantal vi trova il signor Swan in carne ed ossa. Eugene, a quanto pare, è stato meno ingenuo del previsto e ha architettato un controscherzo con l'aiuto del padre, Adam. A questo punto è Chantal ad offendersi e a tornare a casa dai genitori, fin quando l'innamorato Eugene si fa trovare a casa con tanto di guinzaglio e collare: essere il cucciolo l'uno dell'altro non è poi tanto male!

Bobby e Sandra impegnati in una schermaglia

La pellicola è interpretata da una splendida e platinatissima Sandra Dee (Come sposare una figlia, Scandalo al sole, Torna a settembre), appena ventenne ma già da un pezzo "fidanzatina d'America", dal marito Bobby Darin famoso cantante degli anni 50 che si è preso però la soddisfazione di recitare per registi del calibro di Cassavetes e Siegel. Fra i comprimari troviamo Micheline Presle (una lunga carriera recitando fra gli altri per Negulesco, Lang, Chabrol) nel ruolo della madre di Chantal, una disinvolta e divertente figura di mamma "parigina". Fra i comprimari si segnalano Stefanie Powers (futura stella del telefilm Cuore e batticuore), bellissima anche lei e Cesar Romero nel ruolo del padre di Eugene; quasi impossibile riconoscere in lui il Joker del buffo telefilm di Batman degli anni 60.

Micheline - Germaine, la vera protagonista! 

Nel cast tecnico spicca Russel Metty, direttore della fotografia di Howard Hawks, Orson Welles e premio Oscar per la fotografia di Spartacus di Kubrick. Qui si prende una pausa di tutto relax regalandoci però immagini patinate del american way of life e di una Sandra Dee mozzafiato inviluppata nei deliziosi costumi di Jean Louis, un mostro sacro dell'Hollywood fashion, basti dire che sono suoi i vestiti di Rita Hayworth in Gilda.

Sandra Dee e Stefanie Powers: scegliereste la bionda o la mora?

Il film, visto oggi, potrebbe essere tacciato di maschilismo e di "apologia di matrimonio", ma se è solo per quello a quel tempo si portavano serenamente le pellicce, si trincava whisky facendosi meno problemi di quanti ce ne facciamo oggi per una coca-zero, Eugene - horreur! - fumava sul posto di lavoro. Insomma era un mondo diverso, ma che va sempre visto nel registro della commedia.
Sandra Dee e Bobby Darin si trovavano più o meno nella stessa condizione personale dei protagonisti: infatti erano sposati da meno di due anni e avevano appena avuto il loro primo ed unico figlio (ebbene sì anche se non si direbbe, in questo film Sandra era reduce dalla gravidanza, potere dei 19 anni), il che a mio avviso regala una verve del tutto particolare alle rispettive interpretazioni.

Sandra Dee e Jean Louis, risultato mozzafiato!

Dagli anni 60 in qua molte cose sono cambiate, ma per fortuna ancora adesso la gente continua in modo più o meno fortuito, buffo, romantico, disperato, inevitabile a volersi bene. Anche se l'istituzione del matrimonio non gode più della considerazione sociale che aveva cinquanta anni fa,  ancora oggi c'è chi ha il coraggio di pronunciare il fatidico "finchè morte non ci separi"; l'importante è ricordarsi che è l'inizio e non la conclusione di una storia d'amore: addestrarsi a vicenda un po' ogni giorno a dare e ricevere attenzioni proprio come si farebbe con un amico a quattro zampe non mi pare nè disdicevole nè degradante. Credo anzi sia una metafora molto efficace: così come il cane prende il carattere che gli dà il padrone, così la persona che ci vive accanto sarà fatta un po' come ce la siamo meritata.
Ma sto divagando, mentre tutto quello che ci resta da dire è: congratulazioni Lara e Virgilio, siamo tutti con voi!





giovedì 24 maggio 2012

The devil wears Prada - se questo è un diavolo


A proposito di Il diavolo veste Prada si è molto scritto nella blogosfera, ma - sollecitato da una diretta richiesta da parte del il mio più affezionato lettore, l'Anonimo delle 3.37 - non posso esimermi dal dare il mio contributo.
Lo styling del film è stato ampiamente dibattuto sia al momento dell'usicta film sia successivamente e - in tutta franchezza - il commento sulle scelte degli abiti di scena sarebbe ben oltre le mie possibilità.
Non sono mancate infatti le critiche alla vacuità del mondo della moda ed alle sue manie ("un disperato bisogno di Chanel", "la 38 è la nuova 40"). Quello della moda è però un mondo le cui fobie e  contraddizioni sono sotto gli occhi di tutti, in realtà uno sguardo più attento su altre industry - dalla cultura al metalmeccanico - evidenzierebbe inevitabilmente le loro peculiari idiosincrasie, forse meno interessanti o emblematiche da riprodurre sul grande schermo. Bando quindi alla critiche superficiali e a priori, cercherò invece di dare enfasi al tesoro che a mio parere si nasconde sotto una superficie patinata.


Nel cast tecnico spicca la stylist Patricia Field, che ha  curato lo styling di due serie TV di culto come Sex & The City e Ugly Betty. Vi consiglio una visita al suo sito personale: trovo affascinante il contrasto fra l'incredibile gusto personale che traspare dal sito web e la capacità di dare un look elegante ed adeguato a tutti i personaggi del film.


Un altro punto di forza del film è certamente il cast artistico: Meryl Streep giganteggia in un ruolo in cui sarebbe facile perdere la bussola e trasformare il personaggio in una macchietta. Miranda Priestly (chiaramente ispirata  ad Anna Wintour) è un boss inflessibile e inarrestabile, ma la Streep le regala una umanità che dà spessore a tutto il film. Emily Blunt (nel ruolo di Emily, la "prima segretaria" di Miranda), oltre a regalarci la sua interpretazione migliore in assoluto (finora) è molto affascinante e magrissima. Nella versione in lingua originale è un vero piacere sentirla parlare con una inflessione british molto comprensibile.
Stanley Tucci si conferma un vero fuoriclasse (in inglese ha meno "vocina", molto meglio per il suo personaggio). La sua caratterizzazione di Nigel, stretto collaboratore di Miranda e mentore di Andy nel mondo della moda, è irresistibile.
Personalmente non sono un grande fan di Anne Hataway, ma devo riconoscere che qui fa un buon lavoro. Andy Sachs è un personaggio che si evolve, passando dal falso intellettualismo snob della neodiplomata in giornalismo al disincanto senza amarezze della professionista ormai matura del finale.
Anche se qui mi pare un po' fuori parte, concedo una citazione per Simon Baker, nel ruolo di Christian Thompson. Visto col senno di poi è molto meglio in TV (dimagrito e coll'inseparabile gilet) come protagonista della serie The Mentalist.
Il personaggio di Nate (Adrian Grenier) è francamente un insopportabile compendio dei difetti maschili: egoista, infantile e invidioso dei successi della fidanzata. Accetto la critica, ma vorrei puntualizzare che noi maschietti sappiamo essere meglio di così!

 

"Svestiamo" ora per un momento la confezione e analizziamo la trama per quello che è: la storia di una brillante neodiplomata al primo impiego.
Andy si presenta in modo arrogante, forte dei propri successi accademici e ponendosi subito come alternativa rispetto ai propri colleghi. Lei è una giornalista seria, mica una fashion victim! L'ambiente di lavoro si rivela, oltre che competitivo, estremamente professionale, eppure Andy pare aspettarsi che le vengano riconosciuto un occhio di riguardo non per i meriti acquisiti "sul campo", ma semplicemente per essere in possesso di un supposto  livello culturale superiore rispetto agli altri dipendenti. Tuttavia, nonostante il brillante curriculum di studi Andy si rivela alla prova dei fatti incapace di capire il senso delle attività che si svolgono a Runway.
Fortunatamente per lei Miranda si rivela un capo sì duro ed esigente ma anche disposto ad aprirle gli occhi su molte cose: sul senso del mercato di Runway, in una memorabile lezione a metà fra la microeconomia e la filosofia della moda, sull'impegno più che massimo da profondere nello svolgimento dei propri compiti (anche quando apparentemente assurdi, come nel caso del manoscritto di Harry Potter), sul non fuggire di fronte alle proprie responsabilità, anche quando queste ci impongono scelte sgradevoli o che ci possono porre in cattiva luce di fronte ai colleghi. Basta un sussurro a Miranda per dare una nuova consapevolezza ad Andy "tu hai scelto". Sembra il diavolo, ma è Virgilio a parlare con un filo di voce.


D'altro canto  Miranda si dimostra un vero leader: estremamente competente e capace di prendere decisioni con grande lucidità, tiene sempre la bussola puntata sul bene del giornale e non su quello dei singoli (anche quando come Nigel avrebbero accumulato crediti di riconoscenza), sa premiare quando ne ricorrono le condizioni (ahilui Nigel dovrà aspettare, ma Andy viene presto promossa de facto a prima assistente). Miranda però non chiede a se stessa un grammo meno dello spasmodico impegno richiesto a tutti i suoi collaboratori, sacrificando anzi la propria vita  privata alla causa.
Certo, questo modo di intendere il lavoro non è per tutti, Andy decide di seguire una strada personale differente, ma solo dopo aver imparato che è sulla base dell'impegno e dei risultati che si costruiscono i successi. Non per grazia ricevuta, nè attraverso intrighi dietro le quinte, come tenta invece di fare Christian, restandone scottato.
A mio modo di vedere Miranda forse non è molto simpatica, ma è un capo come non se ne trovano quasi mai: esigente ma capace di delegare ed assolutamente focalizzata sui risultati, senza indulgere a simpatie personali.
Miranda ancora una volta aveva visto giusto: Andy ha stoffa, ma se ci sembra (e pare sentirsi a sua volta) una persona più matura e consapevole alla fine del film, il merito va tutto alla sua griffatissima persecutrice. Se questo è un diavolo, mi sento di augurare un po' d'inferno a tutti coloro che si accostano per la prima volta al mondo del lavoro!

Un cameo per la bellissima Gisele.

mercoledì 22 febbraio 2012

Le idi di marzo - Sbagliare da professionisti

 

A gentile richiesta di Anna, una mia affezionata lettrice, per la rubrica "This gun for hire" ho visto il recente Le idi di marzo di George Clooney. Il film è ambientato durante le ipotetiche elezioni primarie del partito democratico nello stato dell'Ohio, ed il fatto che in questi mesi siano in corso le primarie per eleggere il candidato repubblicano alla Casa Bianca rende il film particolarmente interessante.

Giunto ormai alla quarta regia, Clooney si conferma autore con una predilezione per le storie poco convenzionali. La sceneggiatura è tratta da un'opera teatrale (di Beau Willimon), ed il plot è davvero poco originale. Una breve descrizione dei personaggi lascia capire tutto: un navigato e carismatico uomo politico che aspira alla Presidenza (Clooney), uno spin doctor che dirige la campagna elettorale (Hoffmann da un lato e Giamatti dall'altro), un giovane ma abile addetto stampa (Gosling), una avvenente stagista (Wood), una spregiudicata giornalista (Tomei). Il film segue una settimana nella campagna elettorale delle primarie per selezionare il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti e dedica uno sguardo caustico - ma interessante - sui mezzi utilizzati per emergere nell'agone politico.

Mike Morris gigioneggia con l'ufficio stampa.

Gli interpreti sono tutti di ottimo livello e molto ben diretti, nessuno (nemmeno il bel George) cede alla tentazione di prevaricare gli altri. Gosling è in scena praticamente per tutto il tempo.
Ryan Gosling: interpreta Stephen Meyers, l'addetto stampa di Mike Morris. Ha una faccia perfetta per la parte: a metà fra il bello e l'ottuso. Come spesso capita agli americani, gioca un po' sporco ma poi si frega da solo perchè ci tiene ad essere sincero ed  onesto; l'emblema di una famosa canzone di Paolo Conte: in un mondo adulto si sbaglia da professionisti.
Evan Rachel Wood: bella e brava (vista e apprezzata già in Across the universe, The Wrestler e Basta che funzioni) nella parte della stagista Molly, un personaggio privo di una corazza sufficientemente spessa per giocare fra i professionisti. Convincente quando fa la seduttrice e anche nelle scene più tragiche. Marylin Manson la preferì nientemeno che alla ex moglie Dita Von Teese: un vero talent scout! 
George Clooney: anche il suo volto è perfetto per il ruolo del governatore Morris, lanciato verso la presidenza degli USA. Una macchina da guerra dotata di idee politically correct, buona dialettica, simpatia e idee chiare sulle strategie. Per riprendere una vecchia battuta, rispetto a Barack Obama sembra solo un filo meno abbronzato. Che un film sia in grado di proporre un personaggio così vicino alla realtà mi ha lasciato piuttosto inquieto.
Philip Seymour Hoffman: uno dei migliori attori della sua generazione, si conferma anche qui un grande Paul Zara, il regista della campagna di  Morris fissato con la lealtà (detto tutto). 
Paul Giamatti: è Tom Duffy, l'omologo di Zara per il candidato avversario. Diabolicamente abile nell'individuare e sfruttare i punti deboli delgi avversari. Quando sfodera il ghigno mefistofelico mi ricorda un suo altro grande personaggio, il killer Hertz di Spara o muori con Cliwe Owen e Monica Bellucci. Giamatti riesce, con un fisico così poco hollywoodiano, ad essere sempre  suo agio ed anche qui dà un tocco sulfureo ad un personaggio che è il vero motore immobile della vicenda.
Marisa Tomei: dopo un inizio di carriera davvero sfolgorante trovo si fosse un po' persa. Ultimamente però mi era piaciuta (anche lei come la Wood) in The Wrestler di Aronofski.  Qui interpreta la giornalista del New York Times Ida Horowicz, compra e vende informazioni riservate come se fosse al mercato del pesce. La categoria dei giornalisti non ne esce benissimo: Ida è falsa, infida e venderebbe sua madre per scrivere una notizia in anteprima. Probabilmente il personaggio è molto realistico.

Morris e Meyers, apparire è comunicare

I personaggi de Le idi di marzo sembrano essere prigionieri del proprio ruolo, quasi che la politica (o meglio la lotta per la supremazia in una competizione che in questo caso è la politica, ma per analogia si potrebbe applicare a qualsiasi contesto) gli abbia tolto le caratteristiche di umanità per consentirgli solo le azioni funzionali allo svolgimento del proprio compito.
L'impressione che rimane è che tutti siano partiti carichi di buoni propositi e di sincera passione politica, nessuno dei personaggi è un cinico che lavora solo per il denaro (infatti si consolano a vicenda fantasticando sugli strapagati incarichi da consulente che avranno quando lasceranno l'agone politico); Stephen è realmente convinto che Morris sia la persona che può imprimere una svolta alla politca americana.
Però la lotta per il potere corrompe gli animi: di compromesso in compromesso, di sotterfugio in sotterfugio tutto perde di significato. Fanno quello che devono fare, i personaggi di Clooney, un po' come spie che non si domandano più se la propria parte sia quella giusta (infatti di  fronte all'errore i primo impulso è di passare al nemico, continuare a fare le stesse cose per un padrone diverso).  Del resto, questi sono i veri professionisti della politica: i portaborse, gli addetti stampa, gli esperti analisti delle leggi, che magari passano di candidato in candidato, di partito in partito in una spirale che trasforma la passione in professione, venendo sempre un po' più a patti con la propria coscienza. Ce ne sono tanti anche da questa sponda dell'Atlantico, non è certo una caratteristica solo americana, ma spesso non ci piace pensare che sia così.
Gli ideali, per quanto affermati a parole non prevarranno: alla fine ognuno lavora per il proprio tornaconto, passando sopra ai propri principi, ed il senso di colpa non è mai sufficiente a far sì che le cose cambino davvero.

Clooney posa uno sguardo disilluso su un pezzo di società americana, usa ottimi argomenti e sfugge dalle eccessive semplificazioni. Per riprendere una battuta famosa quanto la precedente, se i personaggi di questo film fossero cattolici, sarebbero "cattolici adulti": in questo mondo il compromesso possibile avrà sempre partita vinta contro l'aspirazione alla perfezione ideale.
Clooney probabilmente ha ragione, ma che amarezza!

Meyers e Horowicz, soli anche quando sono in compagnia

mercoledì 23 novembre 2011

Ninotchka - una risata ci seppellirà!

Con questo post inizia la rubrica "This gun for hire", dedicata alle recensioni richieste dai lettori. In questo caso la recensione è stata commissionata da Maurizia, anima e motore del blog Torino Style.

Non si potrebbe pensare ad un titolo migliore per un inizio in grande stile. Ninotchka è forse il titolo più famoso del grande regista Ernst Lubitsch, eppure anche uno degli ultimi della sua lunga carriera.

Il film è ambientato a Parigi nel periodo immediatamente antecedente la Seconda Guerra Mondiale. L'Unione Sovietica, in grave crisi di liquidità (i corsi e ricorsi della Storia...), invia emissari nelle principali capitali dell'occidente per vendere alcuni beni confiscati alla nobiltà. A Parigi vengono inviati gli agenti Iranoff, Bulianoff e Kopalsky, con l'obiettivo di vendere i gioielli appartenuti alla granduchessa Swana. Caso vuole che questa sia riparata proprio a Parigi e incarichi il proprio amante, lo spiantato conte Leon d'Algout, di impedire  la vendita dei gioielli intentando una causa legale contro i tre sprovveduti. Leon fa molto di più, converte i tre rozzi agenti ai piaceri della vita occidentale, al punto che dalla Russia inviano a Parigi un commissario per accertarsi della condotta dei tre e portare a termine la transazione relativa ai gioielli. L'emissario è una giovane, Nina Yakushova completamente dedita alla causa sovietica.

Ninotchka e Leon cercano sulla mappa...la Tour Eiffel

Ninotchka incontra per caso il conte Leon ed i due, complice l'atmosfera parigina, si innamorano. Leon mostra alla giovane razionalista sovietica il lato sentimantale e piacevole della vita, conquistandone l'amore e la fiducia. Con un sotterfugio la granduchessa Swana, ormai apertamente in competizione per l'amore di Leon, rientra in possesso dei gioielli e fa sì che la pattuglia russa sia costretta a rientrare in patria: Leon e Ninotchka devono dunque separarsi. Rientrati in Russia i quattro agenti faticano a riadattarsi alle pratiche collettiviste e vivono nel ricordo dei fasti parigini. Fortunatamente dopo qualche tempo il commissario Razinin (Un Bela Lugosi inatteso in una commedia brillante) invia Ninotchka a Costantinopoli, dove pare che Bulianoff, Iranoff e Kopalsky stiano scialaquando i fondi assegnatigli invece di dedicarsi alla vendita di una partita di pellicce. All'arrivo nella città del Bosforo, Ninotchka scopre che i tre agenti hanno aperto un ristorante etnico e non hanno nessuna intenzione di rientrare a Mosca, ma questa non sarà l'unica sopresa: Leon ha  infatti architettato tutto in modo da far uscire Ninotchka dalla Russia e poterle finalmente dichiarare tutto il suo amore.

Iranoff, Gulianoff e Kopalsky eleganti nelle loro marsine "occidentali"

Ernst Lubitsch dirige una commedia in bilico fra il rosa e il gioco di equivoci con la leggerezza che lo contraddistingue. Sarebbe tuttavia un errore scambiare la leggerezza per mancanza di profondità. La pellicola all'epoca suscitò vibrate proteste da parte dell'Unione Sovietica per via della raffigurazione denigratoria della Russia e dei Russi; forti del senno del poi possiamo dire che Lubitsch aveva colto la sostanza, esprimendola con la forma a lui più congeniale, la commedia.
Lubitsch possiede (fra gli altri) un dono andato ormai quasi del tutto perduto ai giorni nostri: il lasciar capire senza mostrare direttamente. Così ad esempio il cambio di mentalità dei russi è spiegato dal cambiare dei loro cappelli, da informi coppole di lana ad eleganti e lucide tube e la vita di bagordi condotta dai tre è mostrata quasi sempre dall'andirivieni dei camerieri sull'inquadratura fissa della porta della stanza d'hotel (notate peraltro quanto sono corte, e non solo relativamente all'epoca, le gonne delle ragazze che vendono le sigarette).


Ridicola? Se questo vestito camminasse da solo per i Boulevard, io lo inseguirei e una volta raggiunto lo fermerei per dirgli: aspetta delizioso vestito, voglio presentarti a Ninotchka, siete fatti l'uno per l'altra.

La scenografia è Edwin Willis, che ha al suo attivo ben 609 titoli fra cui tengo a citare Alta società, Amami o lasciami, Sette spose per sette fratelli, Lassù qualcuno mi ama, Zigfield Follies, Scandalo a Filadelfia. L'arredamento della casa di Leon è elegante e moderno, il grand hotel è fastoso e classicheggiante, la stanza di Ninotchka a Mosca monumentale ma misera.

I costumi, come sempre in Lubitsch curatissimi, sono di Adrian Greenburg, geniale stilista di Hollywood (su Torino Style trovate un post molto interessante dedicato proprio a lui); si sbizzarrisce per la Garbo in completi "razionalisti", alta moda con cappello ad anfora e un meraviglioso e scollatissimo abito da sera.

Greta Garbo (2 volte Anna Karenina, muto e col sonoro, Mata Hari, Grand Hotel) ormai verso la fine della carriera finalmente si concede una bella risata; le doti interpretative sono fuori discussione, ma non si può non notare come la verve comica arrivi dalcontrasto fra il suo personaggio rigido e severo e quello scanzonato di Melvyn Douglas (Il candidato con Robert Redford, L'inquilino del terzo piano di Polansky, Hud il selvaggio con Paul Newman, Oltre il giardino con Peter Sellers), un vero fuoriclasse ingiustamente poco conosciuto nonostante possa vantare ben due Oscar e una carriera cinquantennale. Il suo Leon è il vero protagonista e deus ex machina del plot. Possiamo non rimpiangere i tempi in cui gli uomini erano eleganti senza affettazione ma sempre virili, sfacciatamente dediti alla caccia di belle donne ma senza rinnegare i propri sentimenti ed erano capaci di coltivare anche i piaceri più colti come la musica o il teatro?

Senza voler cercare reconditi significati psicologici restiamo leggeri anche noi: il  film altro non afferma che una incontenibile joie de vivre: non c'è senso di responsabilità che tenga, nè verso le "grandi" ed "importanti" aspirazioni dettate dalla politica nè verso le aspettative sociali: come fa dire a una Ninotchka significativamente un po' brilla, anche se ci dicono che la rivoluzione è in marcia, pioveranno le bombe e sprofonderanno le civiltà, questo è il nostro momento di essere felici, godiamocelo!

Lubitsch touch!
Garbo laughs!