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lunedì 18 giugno 2012

Cadenas - intervista a Francesca Balbo



Non è frequente su questo blog occuparsi di documentari, di quando in quando ci sono però pellicole che è un vero piacere segnalare. La Sarraz Pictures, piccola e pluripremiata casa di produzione torinese, ha organizzato una proiezione torinese di Cadenas di Francesca Balbo, giovane autrice milanese al primo lungometraggio, e non mi sono lasciato sfuggire l'occasione.
La pellicola, realizzata in tre mesi di lavorazione fra l'autunno e l'inverno del 2010, mostra il lavoro quotidiano delle addette al controllo dei passaggi a livello di una piccola linea ferroviaria locale della Sardegna che si trova in una delle parti forse meno turistiche dell'isola, a nord di Cagliari. Qui la strada ferrata, costruita sul finire dell' 800, un tempo costituiva l'unico mezzo di collegamento fra i vari paesini; la rete stradale era infatti ancora assai poco sviluppata ed i passaggi a livello si trovavano di fianco alla casa cantoniera, dove viveva tutta la famiglia del cantoniere, la cui moglie tradizionalmente apriva e chiudeva con catene (le "cadenas" del titolo) il passaggio stradale. Con l'andare del tempo e lo sviluppo del trasporto su gomma la rete ferroviaria ha perso sempre più importanza, le case cantoniere sono state via via abbandonate, ma il mestiere di casellante si è tramandato al femminile, quasi di madre in figlia. Oggi (ma sarebbe forse meglio dire: per ora) questa linea è l'unica ferrovia rimasta in Europa priva di passaggi automatizzati, e le addette al controllo del passaggio sono sempre lì, fino a dodici ore al giorno, ad attendere il transito del prossimo treno, spesso senza il conforto di un riparo adeguato.


L'ora di durata del film scorre in modo molto fluido, mostrando il quotidiano di noia, alienazione, ossessione per il tempo, ma anche la dedizione e l'esemplare senso di responsabilità di queste singolari lavoratrici.
La Balbo, peraltro, dimostra grande equilibrio nella "narrazione", senza scadere mai nel giudizio superficiale. L'approccio scelto è quello di farsi occhio per lo spettatore, a cui viene lasciato il compito di elaborare la propria opinione personale.

Nel breve dibattito che segue alla proiezione qualcuno evoca il genere western, accostamento comprensibile se si pensa alla bellezza ed all'ampiezza dei panorami ed a una natura ancora in grande parte selvaggia. Inoltre il tema della ferrovia è un classico topos del west.  Nel western però la ferrovia ha sempre rappresentato il progresso, in contrasto con il romanticismo della natura incontaminata, qui invece pare che  il treno sia "già passato" e le casellanti siano rimaste dimenticate a guardia di un varco dove non attraverserà più nessuno, in un compito tanto romantico quanto malinconico.
La visione della pellicola offre diversi spunti di riflessione: è una terra che lega i propri figli quasi trattenendoli con invisibili catene. Certo, le immagini mostrano una realtà molto circoscritta geograficamente, ma come sempre nel miglior cinema ciò che vediamo sullo schermo rappresenta istanze potenzialmente universali: su tutto spicca l'idea di  un territorio dal quale si vorrebbe fuggire per quanto poco ha da offrire in termini di risorse ed inevstimenti, ma da cui non ci si riesce a distaccare a causa delle necessità economiche immediate, della mancanza di alternative o del radicamento in un posto che è pur sempre casa.  Problemi, quindi, che sono attuali e non certo nella sola Sardegna.


Dopo la proiezione ho avuto la fortuna di poter fare qualche domanda in esclusiva a Francesca, molto paziente anche dopo essersi sottoposta ad una raffica di domande da parte del pubblico:

TTM:  Da quanto tempo fai film?
FB: domanda difficile. "Fare film" prevede una consapevolezza sul linguaggio delle immagini, un'idea di impianto narrativo e una collocazione all'interno di un mercato che ho raggiunto da poco (soprattutto l'ultima cosa). Diciamo che faccio i video da un sacco di tempo, ma lavori distribuiti o comunque inseriti in un circuito di visibilita' ne ho 3, Cadenas compreso.


TTM: Come hai deciso di farne una professione?
FB: Ci sono decisioni che non si prendono a tavolino ma crescono nel sottobosco del tuo essere come la gramigna nel giardino e a un certo punto devi scegliere se prendere atto di quello che sei o darti all'ippica. Per quanto riguarda il termine "professione"... c'e' da capirsi: se intendiamo una cosa che fai con energia e determinazione, grandi  sofferenze e grandi soddisfazioni, barcamenandoti per tirare la fine del mese riuscendo a sopravvivere con le piu' varie attivita' allora ecco, questa si che e' la mia professione.

TTM: Molto spesso chi sogna di fare cinema sogna di fare fiction, tu invece hai deciso di dedicarti al documentario, un genere nel quale è sicuramente più complicato raggiungere una certa visibilità.
FB: non ho mai sognato di fare film di finzione. Non ho mai sognato la finzione nella vita, non e' il mio stile. Quando ero alla scuola di cinema, durante il corso di fotografia il docente propose una sorta di gara: descrivere un'immagine, una sola, che evocasse qualcosa, vinceva la piu' evocativa. Io vinsi descrivendo un'immagine inquietante che avevo visto qualche giorno prima: fu molto semplice trovare nella realtà qualcosa di significativo a cui il nostro immaginario bombardato di visioni collegasse stati d'animo o riferimenti culturali. Al contrario, non avrei saputo 'inventare' qualcosa che facesse muovere i sentimenti.

TTM:  Quali progetti per il futuro? Stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
FB: per il momento ho un biglietto per il mare :) Sono mamma single da un anno e mezzo e questo e' un grande progetto che va nutrito con tempo e passione. Ora tocca a lui!



Cadenas, ammesso in concorso al festival Visions du Réel di Nyon,  è già stato presentato in 15 serate presso sale selezionate in tutta Italia.
Chi può non si perda una delle prossime proiezioni: il 18 giugno a Capalbio (Sala Tirreno), il 19 a Genova (Cinema Sivori) e a  Milano (Cinema Palestrina), il 28 a Borgomanero al Cinema Nuovo.
Chi volesse trova qui il trailer
Per chi invece desiderasse approfondire in loco, magari durante le prossime vacanze, consiglio una visitina qui.


Un grazie per le foto a La Sarraz Pictures s.r.l.





lunedì 23 aprile 2012

Living in the material world - The soul of George Harrison


Sono un grande ammiratore del Martin Scorsese documentarista, non potevo quindi certo perdermi la visione su grande schermo di George Harrison: living in the material world, filmato che ripercorre la carriera del beatle George Harrison dagli inizi fino alla morte. Ammetto di non essere mai stato un grande fan dei Beatles (nella bipolare divisione del mondo io tifavo per gli Stones), ma l'evidenza non si può negare e l'evoluzione artistica avvenuta sia nei singoli membri che a tutto il gruppo merita in effetti uno sguardo più da vicino.
La pellicola inizialmente è stata concepita in due puntate per la trasmissione in TV, la visione in sala è un po' penalizzata da una durata complessiva davvero eccessiva (tre ore e mezza abbondanti).
La storia personale di Harrison, inevitabilmente, implica una lunga parte retrospettiva sui Beatles, con molte bellissime foto dei tempi degli esordi e di quelli del periodo amburghese dei Fab Four (che in quel momento  erano in effetti cinque).


La pellicola segue tutto il percorso umano ed artistico di Harrison tentando (tentativo solo a tratti coronato dal successo) di non farne un'agiografia acritica.
Compaiono in veste di testimoni un sacco di personaggi famosi: Jane Birkin, Jackie Stewart, Eric Idle e Terry Gilliam dei Monty Python, ma anche Phil Spector (dall'aspetto impressionante), Eric Clapton e molti altri più o meno noti al grande pubblico, tutti accomunati dall'avere avuto un ruolo nella vita di Harrison, o - per meglio dire - accomunati dal fatto che Harrison avesse avuto un ruolo nella loro.
La parabola del successo di George Harrison segue, o forse ha contribuito ad inventare, il paradigma rockstar: inizia dall'incontro un po' per caso con Lennon e McCartney, prosegue con la boheme dei primi tempi, per poi raggiungere in modo improvviso un successo spropositato (bellissimi i fotogrammi dei concerti con il pubblico composto di sole ragazzine osannanti), la maturazione artistica e l'inevitabile ricerca di nuovi orizzonti di realizzazione personale. Il tutto condito da donne, droghe, auto, party, ville faraoniche. Insomma la totale mancanza dei limiti che costituisce l'essenza della rockstar.


Scorsese ci mostra però un artista ed un uomo vero che è venuto in contatto con tutti i più importanti movimenti culturali della seconda metà del 900, rimanendo sempre interessato all'esplorazione di nuovi territori espressivi, poco o per nulla attratto dagli aspetti materiali e di immagine pur inevitabili per chi abbia raggiunto quel tipo di successo.
Il lato della personalità che viene indagato più di ogni altro è quello della ricerca spirituale che portò Harrison ad avvicinarsi alle culture indiane, confrontandosi con diversi guru, prendendo però da quel tipo di esperienza quello che riteneva gli potesse servire, rielaborando personalmente gli insegnamenti senza lasciarsene sopraffarre. L'interesse e la tensione verso la morte (vissuta però nel senso di passaggio, senza angosce o morbosità) rivelano forse più di ogni altra cosa la fragilità emotiva dell'artista.


Non mancano le testimonianze degli altri Beatles, così come quella di Yoko Ono (ancor oggi...impressionante). Bella la sequenza in cui Ringo Starr si commuove ricordando le ultime spiritose ed affettuose parole sentite dall'amico in fin di vita.
McCartney dopo quarant'anni si può persino permettere di rendere onore al contributo dato genio artistico di Harrison al successo del gruppo.
Sorprendente per me scoprire fu lui a produrre un film come Brian di Nazareth dei Monthy Python fondando per l'occasione la HandMAde films, casa cui si devono alcuni interessanti titoli degli anni 80 (I banditi del tempo di Gilliam, Mona Lisa di Neil Jordan, Shangai Surprise con Madonna e Sean Penn appena sposati)

 

Quello che non ho potuto fare a meno di chiedermi, vedendo la  pellicola è cosa sarebbe stato di Harrison se non fosse mai salito sul bus per fare il "provino" con Lennon e McCartney. Sarebbe riuscito comunque a sfondare come artista o sarebbe rimasto a Liverpool a condividere il destino della città industriale? Sono quesiti "notturni", che non ci si dovrebbe mai fare, quello che è certo è che Harrison, da giovane artista spiantato, così come da milionaria rockstar è sempre stato un punto di riferimento per coloro che l'hanno conosciuto, grazie alla sua gentilezza, alla propria coerenza non solo di artista, alla sua capacità di capire gli stati d'animo delle persone che lo circondavano.
Ebbene, non c'è bisogno di fare quello che ha fatto lui per essere così, che sia stato baciato dal successo o no, tutti dovremmo avere qualcuno così su cui contare, o almeno questo è il mio augurio per chi si fosse avventurato fino alla fine di questo post!



domenica 8 gennaio 2012

Cave of forgotten dreams



Chi ha avuto occasione di leggere altre mie recensioni di film realizzati in 3D (per esempio qui, o qui), già saprà che non sono un estimatore di questa (nuova?) tecnologia. L'utilizzo forzoso di uno strumento come gli occhialini mi fa pensare a una tecnica immatura, e il vago senso di mal di mare che immancabilmente mi pervade dopo pochi minuti mi lascia piuttosto perplesso. Per di più, l'indubbio fascino e la spettacolarità delle immagini tridimensionali è un facile richiamo per il pubblico che purtroppo non sempre viene onorato con la cura del 3D in tutti i ciak, ma solo in quelli di maggiore impatto scenico.  I paragoni con l'introduzione del sonoro o del colore a mio parere non reggono, almeno fino a quando non si trovi il modo di rendere la terza dimensione senza l'ausilio di appositi strumenti e senza indurre lo strabismo.



Tuttavia, nel caso di Cave Of Forgotten Dreams di Werner Herzog le perplessità vengono superate dalla maestria e dall'impegno profusi nella realizzazione di questo insolito documentario.
Herzog (non nuovo al genere, come testimoniano i precedenti Paese del silenzio e dell'oscurità, Echi da un regno oscuro, Rintocchi dal profondo, fino al recente Encounters at the End of the World) ottiene il permesso di filmare, con grande cautela  per non turbare il delicato microclima interno, la grotta Chauvet, uno spettacolare antro situato in Francia, precisamente nella regione dell'Ardeche, dove si trovano, in una cornice di spettacolari concrezioni naturali, i dipinti rupestri più antichi mai ritrovati.
Herzog (voce narrante fuori campo) non si perde un dettaglio, indaga la formazione delle caverne, come queste furono letteralmente sigillate, probabilmente da un sisma; in che modo venivano utilizzate, chi potevano essere e che tipo di vita conducevano i misteriosi pittori.



Con l'aiuto del team multidisciplinare di scienziati che sta analizzando tutti gli aspetti legati alle grotte Chauvet (geologi, antropologi, archeologi, etc...) Herzog ci guida all'interno delle grotte (chiuse a qualsiasi visita) permettendoci di ammirare e, una volta tanto grazie al 3D, quasi di toccare le rocce dipinte dai nostri misteriosi progenitori.



I dipinti sono meravigliosi, disegnati con un tratto sicuro e una capacità comunicativa straordinaria, e la telecamera non trascura alcun dettaglio, come i pezzetti di carbone utilizzati per disegnare e rimasti sul pavimento della caverna, ad attendere più di 30.000 anni prima che Herzog arrivasse a regalarci queste immagini straordinarie.
Si esce dalla sala con un turbine di pensieri e riflessioni in testa, non si può non pensare a questi primitivi uomini (l'ordine dei termini non è casuale) ed al messaggio che ancora ci arriva comprensibile dopo tutto questo tempo. Il paragone per molti versi è improprio, me ne rendo conto, ma la visita a qualche museo di arte contemporanea ci potrebbe forse far sentire più fratelli di un primitivo artista che lascia il palmo della propria mano a firma di un capolavoro, che non a qualche furbetto mercante di idee più o meno provocatorie.

Riproduzione della superficie della caverna al laser

Al contrario delle grotte di Lascaux,il cui sfruttamento turistico ha rovinato in pochi anni quello che i millenni avevano preservato (sono infatti ricoperte da uno strato fungino probabilmente causato dalla modifica del clima interno delle grotte), le grotte di Chauvet non solo sono chiuse al pubblico, ma anche l'accesso degli studiosi è limitato all'indispensabile. Un grazie in più, dunque, al rispettoso lavoro di Herzog che ci consente di godere in modo così realistico di un vero e proprio tesoro culturale, ma anche artistico.



La telecamera tridimensionale, che fatica tanto a convincere al di fuori dell'intrattenimento più scontato, si rivela invece piuttosto adatta allo stile documentaristico, o forse semplicemente un autore resta tale sia in due dimensioni che in tre, ed altrettanto accade per gli onesti, ma poco dotati professionisti del film di genere. Mi resta dunque un po' di rimpianto per non essere riuscito a vedere Pina 3D di Wenders sul teatro danza di Pina Bausch e attendo con curiosità il prossimo Hugo Cabret di Scorsese, che i giornali riportano entusiasta del'esperienza tridimensionale.