giovedì 25 novembre 2010

Inception - Distinguere nei sogni il falso dal vero


Dentro un  film d'azione dove si susseguono senza posa sparatorie ed inseguimenti, Christopher Nolan (Memento, Insomnia, Batman Begins, The Prestige, The Dark Knight) nasconde una complessa riflessione sulle sue tematiche preferite: sogno, realtà ed illusione. 
Il film ipotizza che sia stata scoperta una tecnica per introdursi nel subcosncio attraverso il sogno. Un team di spie industriali specializzato nel furto di informazioni direttamente dalla mente dei derubati viene assoldato per compiere l'operazione inversa, invece di scoprire un pensiero nascosto dovranno inserirne uno nuovo nella mente di un giovane capitano d'industria, Robert Fischer (Cyllian Murphy: Ritorno a Cold Mountain, Batman Begins, Il cavaliere oscuro), inducendolo a smantellare il proprio impero economico. Per farlo dovranno calarsi nel profondo del subconscio di Robert inducendolo - nel sogno - a sognare ancora e ancora, scendendo sempre più nel profondo della sua mente.
Nell'intreccio si sovrappongono dunque i piani (un sogno dentro un sogno all'interno di un altro sogno), nel film chiamati non casualmente livelli
Nel team ognuno ha un proprio ruolo, Leonardo Di Caprio (Romeo+Juliet, Titanic, The Aviator, The Departed, Body of lies) interpreta il capo della banda, Dom Cobb, talentuoso ma tormentato dalla morte della moglie Mal (Marion Cotillard: Taxxi, Big Fish, Un'ottima annata, La vie en rose, Nemico pubblico) di cui si crede responsabile, e che compare puntualmente a tormentarlo in sogno. Arthur (Joseph Gordon-Levitt, Miracolo a Sant'Anna) è il solver, la mente organizzativa; Eames (Tom Hardy, Black Hawk down, Rocknrolla) è un falsario, cioè è in grado di assumere l'identità di altre persone all'interno del sogno. Infine Ariadne (Ellen Page, Juno) è l'architetto, cioè colei che deve curare l'ambientazione del sogno nei minimi particolari, nel film ogni livello di sogno è infatti contraddistinto da una diversa ambientazione. 

Gli effetti speciali ci sono e sono curati con grande professionalità (bellissima la città che si ripiega su se stessa, un po' troppo Matrix style la lotta in assenza di gravità)  ma non sono eccessivamente invadenti.
Ancora una volta nulla di particolare da segnalare sul versante costumi.
La trama, visto il tema trattato non è del tutto lineare però all’interno del sogno, o dei sogni – che pure alla vittima devono parere reali – i personaggi, anche se consapevoli di vivere un'illusione, si muovono esattamente come nella realtà, rispettando le medesime regole e (fortunatamente per la nostra capacità intellettiva) non sovrapponendo troppo i piani. A noi capita invece di vivere spesso nei sogni come verosimile qualcosa che non lo è affatto.  
Visto il tema ci sarebbe piaciuto veder osare qualcosa di più anche dal punto di vista delle scenografie, poco o nulla oniriche.
Fra gli interpreti si distinguono Marion Cotillard per l'ambiguità che regala al personaggio e Ellen Page, solo 23 anni e già un gigante della recitazione. Una breve apparizione del sempiterno ed elegantissimo Michael Caine (qui giustamente celebrato da una delle band anglosassoni più eleganti).

Un film così si ama o si odia e ci sono ragioni per sostenere ciascuna delle due opinioni, dal canto nostro, ancora una volta, lasciamo a voi l'ardua decisione.
Nolan, anche autore della sceneggiatura, usa il registro del kolossal per interrogarci sul rapporto fra realtà ed illusione: la realtà esiste in sé, o è reale solo la nostra percezione? Viviamo davvero ancorati alla realtà o non preferiamo forse architettarci un mondo di illusioni rassicuranti per fuggire al dolore, all'insoddisfazione di un mondo che non è fatto come noi lo vorremmo? L'illusione (o la realtà) che viviamo è la nostra o è quella preparata per noi da qualcun altro? Non ci paiono domande di poco conto e fra un inseguimento ed una sparatoria il film non risolve alcuna delle questioni che pone, e meno di tutte quella fondamentale: alla domanda di Ariadne su come si possa capire se quello che si sta vivendo è reale, Dom risponde che quando ci si trova in un sogno – a pensarci bene – non si sa con precisione dire com’è iniziato. Ma se così fosse, allora chi di noi può dire di ricordarsi come è iniziato il sogno che sta vivendo in questo momento?

giovedì 28 ottobre 2010

Buried - Se telefonando...


Dopo una lunga pausa, dovuta parzialmente alla carenza di titoli validi, rieccoci a dire la nostra sul titolo del momento: Buried - Sepolto. Quale titolo più adatto per la serata di Halloween? Noi però, a scherzetti di questo tipo abbiamo sempre preferito un dolcetto (a volte anche in bottiglia).
Il film è una coproduzione ispano-australiana capitanata da un regista finora sconosciuto ai più: Rodrigo Cortés.
La trama è presto detta: il convoglio di Paul, camionista "contractor" in Iraq, viene assaltato da terroristi che lo prendono in ostaggio, lo chiudono in una cassa e lo sotterrano. Il film inizia da qui, con Paul che si risveglia nella cassa e inizia una singolare odissea telematica per farsi tirar fuori. Apprenderemo poi che il nostro deve racimolare nientemeno che cinque milioni di dollari per mantenere viva la speranza che lo vengano a liberare.

La sceneggiatura inizialmente pare ricalcare un livello di un ipotetico videogame: c'è un problema da risolvere (l'uomo deve uscire dalla cassa) e ci sono un certo numero di strumenti a disposizione: telefono cellulare, accendino, torcia, coltello e una matita. Tutto sta nel vedere l'utilizzo che il protagonista farà della propria dotazione. 
Invece nel corso del film  l'attenzione non si posa mai troppo sugli aspetti pratici, nonostante l'apparenza iniziale, al regista non importa nulla della verosimiglianza. La sceneggiatura offre in questo senso più buchi di un colapasta, ma - appunto - non è attraverso il metro del verosimile che va valutata la pellicola, bensì con quello dell'emozione, il che di per sè risponderebbe già a un bel pezzo della definizione di Cinema. 

Le risorse a disposizione del malcapitato Paul sembrano non esaurirsi mai, ma non è quello l'importante, ciò che conta è che il protagonista - e con lui lo spettatore - pensi che potrebbero esaurirsi da un momento all'altro; trovata interessante e intelligente che permette di mantenere alto il livello di tensione.  
La cassa di buon legno in cui è rinchiuso Paulie varia le proprie proporzioni in base ai suoi stati d'animo, ci pare, in particolare, in base alla quantità di speranza che gli resta.

Con un film di questo genere non faremo ai potenziali spettatori il torto di anticipare alcunchè della trama. Poichè il protagonista ed i personaggi (o meglio le loro voci) sono yankee ma la produzione è spagnola, tenteremo invece un'analisi comparata del modo di risolvere i problemi rispetto alle culture mediterranee:
  • E' evidente che Paul provenga da una cultura più civile della nostra poichè egli nemmeno per un minuto perde la fiducia nell'ordine costituito, demandando agli organi preposti la propria salvezza invece di, semplicemente, arrangiarsi.  
  • Gli States appaiono come Paese di infinite risorse, ma schiavo della procedura; l'inizativa personale è malvista, meglio attenersi ai protocolli previsti... Quale europeo si fiderebbe dei protocolli previsti, ammesso che esistano? 
  • Non solo: Paul sta al gioco e si fida addirittura della buona fede dei suoi rapitori, che pure dimostrano di essere spietati e non si curano di prospettargli alcuna garanzia. Au contraire sulle nostre sponde ci sembra si sia sempre guardato in bocca al cavallo, soprattutto quando regalato. 
  • Paul - inoltre - certamente proviene da un cultura maggiormente secolarizzata, infatti non prega. Chi di noi fra tronisti, pupe o secchioni che si sia, chiuso in una cassa nel deserto dell'Iraq senza serie prospettive di uscirne, si sente di affermare che rinuncerebbe a tentare una preghierina che - tanto - male non farà?
Tutte le scene si svolgono all'interno della cassa, dove il mondo esterno penetra grazie ai rumori, o alle voci trasportate da un telefono. Il regista merita una menzione speciale per essere riuscito a non annoiare neanche per un minuto del film, che pure si svolge in uno spazio piuttosto angusto. Rodrigo Cortés (Yul, 15 days, The contestant) si guadagna sul campo i rari galloni di autore virtuoso senza risultare stucchevole o autocompiacente.
Ryan Reynolds (una strana carriera in bilico fra diversi generi, da Maial College a Blade:Trinity, Amityville horror, Un segreto fra di noi, fino al più recente Wolverine- le origini. Le più accorte lo avranno ammirato nello spot Hugo Boss Bootled Night è convincente come volto, corpo e voce di un Paul che telefona compulsivamente a chiunque gli passi per la testa (in questo - finalmente! - simile a noialtri).


I costumi non ci sono, rileviamo solo pubblicità nemmeno troppo occulta per una  marca di accendini a benzina molto glamour ed una altrettanto famosa marca di smartphones d'oltreoceano. A questo proposito un particolare che abbiamo trovato divertente: l'agente dell'FBI ha difficoltà a rintracciare il numero di telefono chiamante, ma in compenso è lestissimo nel suggerire il modo più veloce per passare dalla chiamata a vibrazione a quella a suoneria, proprio come se sapesse quale modello viene utilizzato dal protagonista.

In definitiva, non sappiamo se consigliarvi o meno di dare fiducia a questo film. I personaggi sono stupidi, l'atmosfera claustrofobica e il protagonista si ostina a complicarsi la vita non dando le informazioni chiave ai suoi interlocutori, il che ci è risultato piuttosto snervante. Di contro è comunque buon cinema, l'ora e mezza di durata passa rapidamente, l'idea è originale e va di moda parlarne. A voi la scelta dunque!
Da parte nostra chiudiamo con una comunicazione di servizio: prima di recarvi in Paesi pericolosi è saggio fare un salto qui. Poi non dite che non lo sapevate!

domenica 5 settembre 2010

Somewhere - dove è il tuo cuore, là è il tuo tesoro


C'è qualcosa di ognuno di noi in Johnny Marco, l'immaginaria star di Hollywood in Somewhere di Sofia Coppola, ma ci torneremo su fra poco. 
La figlia d'arte e di fatto di Francis Ford Coppola (qui in veste di produttore esecutivo) non sbaglia un colpo e ci regala un altro film memorabile dopo Il giardino delle vergini suicide, Lost in translation e Marie Antoinette. Lo sguardo di Sofia sa cogliere il surreale come pochi altri ed ha la rara dote di un'ironia feroce, senza tuttavia giudicare i propri personaggi. In questo film parla di ciò che probabilmente conosce meglio: il mondo dello showbiz  e il rapporto padre - figlia nell'ambiente dello spettacolo; indubbiamente alcuni spunti sono autobiografici, ma riesce comunque a mantenere il dovuto distacco.
La storia infatti ci racconta di Johnny (Stephen Dorff, visto in Blade, e più di recente in Nemico Pubblico con Johnny Depp), celeberrimo attore che passa le proprie giornate al Chateau Marmont (scelta ovviamente non casuale, servirebbero un paio di pagine solo per l'elenco di attori e rockstar che vi hanno soggiornato) fra eccessi di alcol, medicinali e sesso. Ma Johnny non sa più divertirsi, pare quasi aver perso la memoria del perchè si trovi lì e passa da una situazione assurda all'altra, dal letto di una coppia di spogliarelliste gemelle ad una surreale conferenza stampa con l'identica espressione di indifferenza, straniero a  se stesso ed al mondo in cui vive.
La Coppola fortunatamente non si perde in moralismi (e si che la giustizia sommaria sarebbe semplice: ha tutto, è giovane, ricco, famoso, desiderato), va anzi dritta al punto: Johnny, banalmente, si limita a vivere la vita che gli è toccata in sorte - non ha nemmeno studiato recitazione - senza sapere bene come fare a uscirne, sembra anzi aver perso la mappa: non sa più dove si trova nè dove vuole andare. A scuotere il suo torpore arriva la figlia preadolescente Cleo (Elle Fanning, sorella minore della più famosa Dakota) che resterà a vivere con lui per alcune settimane dandogli l'occasione che stava aspettando.
Scene memorabili: 
L'esibizione delle spogliarelliste gemelle con Johnny che si addormenta, surreale e tristissima!
Tutta la sequenza italiana della consegna dei telegatti, verosimile in modo imbarazzante, con ballerine sculettanti e seminude (la coreografia è molto simile allo strip tease delle gemelle, non ho capito se fosse voluto o meno, ma è inquietante).
Infine la scena del ritorno al Chateau Marmont dopo la trasferta italiana, con Cleo che si addormenta con la testa abbandonata sulla spalla del padre.
Ci è piaciuta moltissimo la tecnica dell'inquadratura fissa con i personaggi che entrano ed escono dal campo, come se al di fuori dello spazio previsto per loro non esistessero neppure, d'altronde allo spettatore non interessa la persona dell'attore, ma solo il personaggio che lo star system ha confezionato per lui.
Il cast:  
Stephen Dorff, molto in forma, interpreta con misura un Johnny perso ma non perduto. Indossa in continuazione camicie a quadri sulla maglia della salute o t-shirt di band rock (tipo quella dei Black Flag, gruppo cult degli anni '90).
Elle Fanning, ci è piaciuta molto. Una Cleo undicenne ma cresciuta più della sua età; in effetti quasi nessuno la tratta come una bambina. Belli i costumi, che la fanno sembrare un po' più grande della sua età, scelta di regia o più semplicemente è nello spirito dei tempi il vestire le bambine in modo vagamente lolitesco? Molto elegante nel vestito indossato per la cerimonia di consegna del telegatto.
Tutti i personaggi italiani, anche le comparse, sono vestiti realisticamente "da italiani", in modo molto diverso dai personaggi americani.
La sequenza della trasferta in Italia ci regala alcuni personaggi di casa nostra che, per quanto minori rispetto alla trama, non possiamo esimerci dal commentare.  
Laura Chiatti interpreta un flirt italiano di Johnny, ancheggia da par suo su tacchi 12, sempre bellissima.
Jo Champa (a volte ritornano!), giustamente volgare in un bel cameo come moglie di "Pupi" (aargh!), il burinissimo produttore italiano dell'ultimo successo di Johnny.
Simona Ventura, Nino Frassica e Valeria Marini consegnano i telegatti. La Coppola sostiene che la scena sia la ricostruzione di una situazione realmente vissuta, poco importa: dall'estero ci vedono così e non ce ne stupiamo. I tre interpretano se stessi, nel film sono simbolo della volgarità imperante e fanno una magnifica contrapposizione all'eleganza di Cleo, in prima fila ad applaudire il padre. Neppure noi indulgiamo al moralismo: al film servono così. A noi, meno!

Non è una storia senza speranza quella di Somewhere. Da qualche parte, in questo grande mondo, tutti viviamo un quotidiano surreale ed alienante, ma a ben vedere basta poco per ritrovare affetti, radici e speranza. Johnny ci prova, lascia il luogo dell'apatia, lascia le false sicurezze e lascia anche la sua Ferrari, non gli serve più. Non gli serve più nulla: ci sono solo lui, una piana sterminata e la strada. Finalmente può sorridere: per lui (ma non è forse così per tutti?) c'è un orizzonte sconfinato da raggiungere, laggiù, somewhere... 
Buon viaggio a tutti!

mercoledì 7 luglio 2010

Valentino - la solitudine dei numeri uno


Quale occasione migliore per Torino Style di unire la passione per la moda e quella per il cinema e vedere per voi il DVD di "Valentino - the last emperor"? La pellicola segue l'ultimo periodo della carriera del grande couturier, in particolare la sfilata parigina del 2007 e la celebrazione romana per i 45 anni di carriera; tecnicamente si tratta di un documentario, girato in presa diretta sui luoghi di lavoro, ed ha il grande pregio di consentirci uno sguardo all'interno del mondo un po' magico ed un po' misterioso dell'alta moda.
Il film è realizzato dal cineasta americano Matt Tyrnauer (bravo ed equilibrato). La domanda ci sorge spontanea: un progetto come questo viene realizzato da un americano perché la lontananza culturale gli consente uno sguardo privo di pregiudizio o perché in Italia nessuno è in grado di farlo? Attendiamo con  curiosità qualche commento in merito.

Il film centra l'attenzione sul sodalizio fra Valentino e Giancarlo Giammetti, rispettivamente la geniale anima creativa e la brillante mente organizzativa che hanno dato una grande contributo alla creazione del mito del made in Italy, infondendo vita e vigore ad una delle principali fashion companies a livello mondiale.
Una riflessione importante che il film propone è quella sul legame fra finanza e moda, precisamente su come il mondo della moda si vada trasformando sempre più in un mercato, comprimendo parzialmente la libertà creativa degli stilisti. Se la domanda di fondo è "oggi per un giovane stilista sarebbe ancora possibile diventare Valentino?", ebbene la risposta, purtroppo, pare scritta negli indici di bilancio più che nelle matite dei designers.

Nelle prime sequenze Valentino dichiara di essere stato inizialmente ispirato dal cinema, dai meravigliosi costumi delle dive del silver screen, e a noi pare che di questa ispirazione abbia fatto tesoro per una vita che sembra davvero un film: dalle prime esperienze parigine, agli incontri fondamentali, alla costruzione di un successo mondiale partendo sostanzialmente da zero e attraversando con la stessa eleganza le diverse epoche dagli anni '60 in poi.
Il film non manca di momenti ironici o buffi, che a nostro avviso alleggeriscono un po' l'insieme e non scalfiscono di una virgola nè l'uomo nè il mito che ha saputo creare.

Le sarte fanno tutto a mano (come Giammetti orgogliosamente rivendica), le mannequin paiono davvero più "strumenti di lavoro" che bellissime donne da ammirare, lo stile di Matteo Marzotto è da manuale, ma purtroppo nessun libro può insegnare la sua innata eleganza. Alle sfilate presenziano miriadi di attori hollywoodiani, ma in questo film sono solo comparse!
Momenti da ricordare: la geniale inquadratura dei carlini messi in fila sul sedile dell'aereo all'inizio del film, la scena della consegna della Legion d'Onore con i ringraziamenti sinceramente commossi a Giammetti, la camera che coglie il cambio d'espressione delle modelle, da trafelato nel backstage ad altero sul catwalk; infine Valentino e Karl Lagerfeld, mentre ammirano i vestiti appesi all'Ara Pacis, sembrano due generali avversari che si incontrano dopo anni di battaglie e non hanno bisogno di parole per capirsi. 

L'atmosfera del film, uscito nel 2009, è un po' da fine di un'epoca e forse è proprio così, oggi si ama forse più la moda dell'eleganza e la trasgressione più della professionalità. 
Valentino, per quanto ammirato, non pare compreso fino in fondo quasi da nessuno, come se il suo inarrivabile talento lo rendesse in qualche modo straniero. E' forse parte del destino dei numeri uno scalare la montagna fino alla vetta e scoprire che non v'è posto per nessun altro?

mercoledì 16 giugno 2010

Il Concerto, o della ricerca del bello


Esce il 16 giugno in DVD Il concerto, pregevole opera di Radu Mihaileanu, di cui si ricorda il commovente Train de vie. Si tratta di una favola, il cui prezioso messaggio è nascosto ora dal registro grottesco, ora da una pungente ironia. 
La trama segue le vicende di un direttore d'orchestra, caduto in disgrazia ai tempi di Breznev, nella realizzazione (improbabile) di un sogno interrotto trenta anni prima dall'idiozia totalitarista. Andreï Filipov, rimosso dal suo incarico di direttore dell'orchestra del Bolschoi, è ormai ridotto a fare le pulizie nel teatro che lo vide trionfatore e i membri della sua orchestra conducono da trenta anni vite altrettanto umilianti. L'occasione è quella di sostituirsi all'orchestra del Bolschoi per un concerto a Parigi. Andreï, come in tutte le fiabe che si rispettino, dovrà superare alcune prove, ritrovare i musicisti, organizzare il viaggio e riuscire a suonare a Parigi senza aver provato un solo minuto. Eppure l'improbabile orchestra è unita da un filo invisibile, il portare a termine un concerto interrotto trenta anni prima, così come invisibile è il filo che lega la solista Anne-Marie Jacquet al destino di questo stesso concerto. E' un segreto e nobile compito di dignità e di umana pietà, quello che si danno i nostri musicisti; a ben vedere ciò che li muove non è la ricerca di una rivincita ma la ripresa di un discorso interrotto. Ogni orchestrale può dare il proprio contributo, la vita li ha resi brutti, meschini, egoisti, ubriaconi: tutti saranno redenti perchè uniti - nonostante tutto - dalla ricerca del bello, dell'assoluto. Non è questione di tecnica, ma di cuore, ed è grazie a questo che Andreï riuscirà nella sua personale catarsi e Anne-Marie, attraverso la musica, troverà una nuova consapevolezza di sè. 
Il film è anche l'occasione per una feroce critica alla miopia dei totalitarismi; raramente abbiamo assistito ad un affondo così penetrante nei confronti del regime sovietico, oggi rappresentato in modo quasi gattopardesco dai magnati del gas. Mihaileanu sembra dirci che nessuna epoca può dirsi realmente al sicuro: i nemici dell'arte e del bello si nascondevano ieri in un regime stolido, oggi li ritroviamo nelle pacchianate da miliardari senza cultura.

Gli interpreti:
Mélanie Laurent: l'abbiamo già apprezzata in Bastardi senza gloria di Tarantino ed ha veramente i numeri. E' una perfetta Anne-Marie Jacquet, di cui rende con sincerità la spocchia "parigina" prima ed il sentimento di solitudine e fragilità dell'orfana poi
Aleksei Guskov: è un magnifico protagonista. Dignitoso ed elegante quasi malgré soi, interpreta con classe un uomo che pare sconfitto dalla vita, ma che in realtà non riesce a rinunciare al valore assoluto. 
Citazione d'obbligo per Miou-Miouun pezzo di storia del cinema francese: interpreta la madre putativa di Anne-Marie ed è semplicemente monumentale, soprattutto nella misura. I veri grandi non strafanno!

Un film come questo non si giudica dai costumi, tuttavia segnaliamo la elegantissima mise di Mélanie Laurent nella scena della cena, ed il vestito bianco che indossa al concerto.
Bellissimo l'arredamento della casa della violinista, una vera maison d'artista!
In mezzo a un film che non rinuncia a prendere in giro perfino sè stesso (i personaggi parlano con un accento russo a dir poco fumettistico), Mihaileanu ci regala due scene di grande cinema: la cena in cui Andreï non riesce a comunicare la verità ad Anne-Marie e quando Sacha, il violoncellista, chiede alla stessa Anne-Marie di non rinunciare al concerto in nome di un valore: la bellezza.

Pietà, dignità, bellezza. Non sono parole di cui capita di scrivere spesso, eppure il film ci dà speranza: chissà che di qui a trenta anni qualcuno non riesca nuovamente ad allestire un concerto per ridare giustizia a valori che a volte covano sotto la cenere, ma non si spengono! 

venerdì 28 maggio 2010

Robin Hood, la recensione


In tempi di crisi e scandali finanziari internazionali, quale storia è più attuale se non quella di Robin Hood? Ridley Scott ancora una volta si conferma fortunato, oltre che bravo, ed esce con il film giusto al momento giusto. 
Necessaria premessa: non si tratta di un film storico. Rispetto a precedenti versioni i fatti sono calati in un contesto storico realistico anche se non reale e i personaggi sono ispirati ai veri protagonisti di quel periodo; tuttavia, un film non è un libro e si prende ampie licenze "artistiche" inventando di sana pianta, ad esempio le circostanze della morte di Riccardo Cuor di Leone o  la genesi della Magna Charta, in modo però funzionale al discorso che Scott intende portare avanti. 
Il film narra di Robin Hood prima che diventasse mito, un'operazione già tentata con successo da Christopher Nolan con Batman Begins. La trama si tiene comunque sulla falsariga della tradizione, con qualche variante. Robin Hood è un soldato che di rientro dalle crociate si trova ad impersonare un nobile inglese. Le circostanze lo porteranno ad assumerne completamente l'identità completando un percorso personale attraverso cui ritroverà le proprie radici, scoprirà una nuova coscienza civile e farà innamorare lady Marian. Game, Set and Match!
Belle e ben sceneggiate le scene di guerra e di lotta. Bella l'immagine della nave che risale a remi il Tamigi. Le scialuppe da sbarco dei francesi, in stile Normandia 1944 ma a remi: semplicemente buffe; non possiamo che augurarci che siano state messe lì strizzando un occhio al soldato Ryan!

Il cast: un vero parterre de roi con molti britannici.
Russel Crowe, piuttosto in forma giunto ai 46 anni, è ormai  presenza fissa nei film di Scott. E' un Robin Hood muscolare ma credibile. Ci piace (fin dai tempi di LA Confidential) per come sa usare un fisico possente solo quando serve, mettendosi al servizio dell'interpretazione e non viceversa.
Cate Blanchett, è una scelta piuttosto azzeccata. Riesce ad essere elegante anche lavorando nei campi, coniuga alterigia nobiliare e passione civile. Una bionda qualsiasi sarebbe stata fuori luogo.
William Hurt è la vera sorpresa del film, e non parliamo solo dell'abbondante dose di botulino con cui si è spianato il viso! Interpreta con rara maestria un Guglielmo di Longchamp (personaggio storico) vero deus ex machina della corte inglese. Ci mancava e l'abbiamo ritrovato!
Max Von Sydow: Interpreta il vecchio padre cieco di Locksley e diviene padre spirituale di Robin Hood. Torreggia da par suo senza gigioneggiare eccessivamente. 
Mark Strong: il personaggio (Godfrey, il super cattivo del film) è banale, ma merita un citazione per il make up per la cicatrice stile Capitan Harlock su un lato della bocca causata da una freccia di Robin. 
Danny Huston (figlio del grande John Huston): fa un Riccardo Cuor di Leone romantico e diverso dal solito: come un soldato stanco ma consapevole di non poter fare altro che continuare sulla via che ha scelto fino alle estreme conseguenze.
Oscar Isaac nel ruolo di Giovanni Senza Terra (incomprensibilmente il fratello è biondo-rossiccio - come nella realtà era - lui invece sembra il fratello del Saladino, carnagione olivastra e una barbetta che sarebbe ridicola anche sulla faccia di un tronista). E' un personaggio sfortunato perchè pare che debba essere rappresentato comunque come un idiota. Qua e là vediamo invece  barlumi di una interpretazione originale. Lo aspettiamo a una prossima prova!
I costumi non sono particolarmente belli ma abbastanza fedeli al periodo, Robin indossa pantaloni di pelle un po' punk, Marian veramente troppo scollata per quel periodo storico. Da notare il numero di anelli alle dita di re Giovanni e della principessa Isabella. Gli abiti regali però li avremmo voluti più in evidenza.

Last but not least il regista: Ridley Scott è forse l'autore in attività che può vantare il maggior numero di film che hanno fatto epoca (I duellanti, Alien, Blade Runner, Thelma & Louise, Il Gladiatore e qui mi fermo per ragioni di spazio); purtroppo questo non è uno di quelli, ma resta un prodotto di rara qualità. Ce ne fossero!

venerdì 26 marzo 2010

Alice: solo chi è pazzo cambia il mondo



Lo confessiamo: siamo fan della prima ora di Tim Burton. Abbiamo amato Edward mani di forbice, riso con Mars Attacks!, ci siamo spaventati con Sleepy Hollow e con Sweeney Todd, commossi con Nightmare before Christmas e la Sposa cadavere e - dulcis in fundo -meravigliati con La fabbrica del cioccolato. Tuttavia ogni film è un nuovo esame, ed è con sottile inquietudine, anzi, con una punta di pregiudizio, che siamo andati a vedere l'ultima fatica dell'autore americano: Alice in wonderland, per l'occasione in versione 3D.
La trama segue le avventure di Alice in un mondo al tempo stesso poetico e allucinato caratterizzato dall'inquietante estetica gothic tipica di Tim Burton.
Uno dei temi ricorrenti nei suoi film è quello della ricerca/accettazione di sè in contrapposizione alla dilagante omologazione della massa. In questo il film è una conferma: Alice, soffocata dai conformismi della società, trova la propria identità attraverso un percorso personale originale e rientra nella stessa società, non più come pedina inconsapevole, ma come individuo attivo e propositivo. La trasformazione (il passaggio dall'adolescenza all'età adulta), è ben sottolineata dai costumi: Alice cambia d'abito ogni volta che le succede qualcosa, quindi spesso. Lo stile, sembra dirci Burton, non è la pedissequa applicazione della moda ma l'interpretazione che ognuno di noi ne fa.
Ci hanno deluso alcune inaspettate cadute di stile, come Alice che al rientro nel mondo di sopra fa la morale a tutti i presenti e si esibisce in una ridicola "deliranza" ma, al di là delle scene più o meno riuscite, a noi di Torino Style è parso che per decollare davvero al film manchi quel briciolo di follia in più che l'avrebbe veramente reso "migliore". 


Per quanto riguarda i costumi: belli quelli vittoriani del party "matrimoniale"; la corte della regina rossa veste in stile '400 (curatissimi i personaggi di corte), quella della regina bianca è del '600. Il cappellaio matto sembra vestito dall'esercito della salvezza; Alice, oltre alle proprie dimensioni fisiche, cambia in continuazione vestiti e scarpe, tutti belli.  
Sia ai costumi che alle scenografie, rispetto alle capacità visionarie dimostrate nei film precedenti, manca quel non so che che in occasioni precedenti ci ha strappato un "ooooh" di ammirazione.


Sugli attori, tranne i personaggi umani, tutti pesantemente truccati o realizzati direttamente in grafica:
Johnny Depp: un'occasione persa, troppo truccato (molto più che nella chocolate factory), il personaggio non è particolarmente sviluppato dalla sceneggiatura. Non giudicabile.
Helena Bonham Carter: difficile ricordare l'ultima volta che NON ha interpretato una pazza psicopatica nascosta sotto mezzo quintale di make up. Non sarebbe ora di aprirle la gabbia?
Anne Hathaway: con occhi e bocca smisurati (di natura) non stupisce che abbia colpito l'immaginario di Burton. Per noi, le manca un pizzico di autoronia che avrebbe reso la svampita regina bianca un personaggio memorabile; perde l'occasione di rubare la scena a un big come Johnny Depp.
Mia Wasikowska: la good news del film. A 20 anni scarsi riesce a dare credibilità al personaggio, ed è davvero protagonista anche se circondata da mostri sacri dello showbiz. Sarà interessante vedere che film sceglierà in futuro, per il momento... chapeau!


Una nota sul 3D. In questo caso non aggiunge e non toglie nulla all'estetica del film; è infatti poco sviluppato (il film si può praticamente vedere anche senza indossare gli occhiali), pare quasi che perda anch'esso convinzione con il procedere della trama. La lotta con il Ciciarampa avrebbe potuto essere un pezzo di storia del cinema.


Sintesi: film godibile ma non imperdibile, da Tim Burton pretendiamo di più, lo aspettiamo con fiducia alla prossima prova!

venerdì 12 marzo 2010

Invictus: Mud & Glory



Abbiamo visto per voi - con grande piacere peraltro - Invictus, l'ultima fatica di Clint Eastwood. Se Dirty Harry di solito prima sparava e poi chiedeva chi va là, il vecchio Clint (a maggio saranno 80, portati con grande eleganza) si dimostra una volta di più autore di staordinaria sensibilità.

Il film racconta come Nelson Mandela, dopo la fine dell'apartheid ed il suo insediamento come Presidente, utilizzò la Coppa del mondo di rugby del 1995 in Sudafrica come strumento di coesione nazionale. La storia è dunque basata su fatti storici, e questo rende la sua metafora ancora più potente.

Mandela prende per mano al tempo stesso una nazione ed una squadra sfiduciate, insicure dei propri mezzi e riluttanti al cambiamento e indica loro la via per raggiungere un obiettivo (che sarà sì sportivo, ma soprattutto politico) al di là di ogni aspettativa.

Oltre al regista, ispirati anche gli attori protagonisti, Morgan Freeman particolarmente in palla nel ruolo di Mandela (c'è voluto uno straordinario Jeff Bridges per batterlo nella corsa all'Oscar come miglior attore protagonista) e Matt Damon in versione al nandrolone (scherzi a parte cosa gli avranno mai dato per fargli gonfiare così i muscoli?) nel ruolo di François Pienaar, capitano degli Springboks campioni del mondo.

Belli i costumi, con un Mandela sempre impeccabile quando è nel ruolo istituzionale, preferibilmente in completi chiari, nella vita privata invece sfoggia camicie o maglie multicolori. Matt Damon indossa un elegante completo blu solo per il the al palazzo presidenziale, mentre per tutto il resto del film è in abiti sportivi, di solito sporchi di fango, impegnatissimo nel fare la propria parte nella costruzione di una nuova identità nazionale.
"Questa Nazione ha fame di gloria" dice Mandela in una scena del film, e nessuno più di lui, o di un rugbysta, sa che i grandi traguardi si raggiungono sì lottando nel fango, ma a viso aperto, senza rinunciare a comportarsi con stile. I veri uomini - e il film ne abbonda - sono buoni ma non buonisti, sanno soffrire, lottano per le proprie idee e qualche volta cambiano idea! Una lezione, e non solo di cinema. Decisamente consigliato.