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lunedì 22 ottobre 2012

Il comandante e la cicogna - The wrong side of the road


Il comandante e la cicogna mette in scena l'Italia della crisi, o la crisi dell'Italia? La questione sembra puramente filosofica, ma darle una risposta conduce a conclusioni opposte. Silvio Soldini rappresenta senza ombra di dubbio la crisi dell'Italia, collocandola in un contesto di depressione economica che non aiuta i personaggi a fare scelte moralmente edificanti. Eppure c'è stato un tempo - guardacaso il Risorgimento - in cui uomini come Garibaldi, Verdi, Leopardi (non risorgimentale, ma poeta, il che è più importante) inseguivano degli ideali come libertà, giustizia, bellezza. L'ultima eredità rimasta di quei tempi paiono essere le statue che ornano le nostre piazze.


Proprio da qui si dipana la trama sceneggiata da Soldini insieme a Doriana Leondeff e Marco Pettenello: cosa penserebbero gli eroi della nostra mitologia nazionale se potessero vedere cosa ne è stato dell'Italia tanto fortemente voluta unita e libera da invasori stranieri? La statua di Garibaldi sbuffa amare riflessioni, nè è più tanto sicura che sia valsa la pena di combattere gli austriaci, che - forse - avrebbero saputo gestire il Paese con maggior rispetto di quanto non si faccia noi. La trama principale segue la storia della famiglia di Leo Buonvento, idraulico rimasto vedovo con due figli adolescenti che tutte le notti conversa con il fantasma della moglie. La sua vicenda si intreccia con le disavventure di Diana, giovane artista bohemienne. I due si incontrano nello studio di un losco avvocato dall'evocativo nome di Malaffano, dedito ad assistere trafficoni e truffatori in spregiudicate operazioni immobiliari. Elia, il figlio di Leo, stringe invece amicizia con il padrone di casa di Diana, Amanzio: sfaccendato e saccente con la passione per le citazioni letterarie. Elia presenta ad Amanzio Agostina, una cicogna che tutti i giorni va a trovare in un campo di periferia. La sparizione del volatile sarà catalizzatore per lo scioglimento dei nodi fra i personaggi, senza che la vicenda giunga ad una vera e propria conclusione.


Fra gli attori Valerio Mastandrea spicca nel tratteggiare il personaggio di Leo, un uomo che fa quello che può: lavora, cerca di essere un buon padre per i propri figli senza cedere troppo alle proprie debolezze.
Alba Rohrwacher interpreta Diana, pittrice e scultrice con grandi difficoltà a sbarcare il lunario, un'anima gentile del tutto persa in un mondo che va troppo di fretta per fermarsi a guardare la meraviglia di un paio di scarpe misteriosamente appese ai fili del tram.
Claudia Gerini, è Teresa, la moglie fantasma di Leo, dotata di un grande senso pratico. Magnifico il contrasto fra l'inconsistenza fisica del personaggio ed il corpo leggermente appesantito da splendida quarantenne, che peraltro viene esibito dalla Gerini con giustissimo orgoglio (pensate a cosa diventano le attrici americane dopo i 40, viva le donne sane ed italiane!).
Giuseppe Battiston è sempre bravissimo. Il suo Amanzio ricorda per certi versi (l'amore per la cultura, la buffa proprietà di linguaggio con cui si esprime) il personaggio di Bruno Ganz in Pane e tulipani.
Luca Zingaretti è l'avvocato Malaffano, vero simbolo dei nostri tempi.
Luca Dirodi e Serena Pinto, esordienti scovati grazie ad una serie di provini condotti nelle scuole, sembrano avere stoffa e sono perfetti nel loro rappresentare con sincerità due ragazzi alle prese con i problemi della propria età.


La pellicola è ambientata a Torino ed il contrasto fra l'anima rigorosa ed elegante del centro con la desolazione delle periferie è estremamente efficace. In un primo momento, addirittura,  Soldini aveva pensato di girare un musical, abbandonando poi il proposito non si può dire che abbia fatto una commedia: ha sì mantenuto la levità di sguardo che lo contraddistingue, ma la cosa rende ancora più insopportabile la realtà che raffigura, la quale per quanto sia assurda a pensarci bene non è affatto favolistica. Di tristi truffatori, faccendieri, rubagalline e poveracci si legge sui giornali ogni giorno.
Come certi personaggi dei vecchi blues di Tom Waits si tratta di figure sempre on The wrong side of the road, qualcuno come Leo cerca di mantenere una rotta, ma non è detto che ce la possa fare.
Fra i protagonisti infatti nessuno, ad eccezione di Elia, è innocente. Sono tutti pronti a tirare acqua al proprio mulino, a scendere a patti "solo un pochino" con la propria coscienza, a volte per furbizia a volte per stupidità o per disperazione: in questo c'è la rappresentazione dell'Italia della crisi.
Chi ha bisogno di soldi, chi ha bisogno di un prestanome, chi ha bisogno di cancellare un video imbarazzante da Internet, chi si atteggia a moralizzatore per poi spende i soldi con le puttane: questa è la rappresentazione della crisi dell'Italia, un Paese che insieme alla cultura ha perso l'amore ed il rispetto per se stesso.

Soldini ci regala, quasi come contentino, ancora una speranza nella persona di un ragazzino che va tutti i giorni in un campo di periferia a trovare la sua amica cicogna che sa librarsi in alto sopra tutte le nostre miserie, i nostri compromessi, le nostre sconfitte quotidiane.
Il mondo, suggerisce l'ultima inquadratura, continuerà a girare come ha sempre fatto nonostante noi.
Ma si può ancora sperare nell'amore.


Un interessante video girato dietro le quinte del film


venerdì 6 aprile 2012

Gran Torino - una buona novella?


La storia è la seguente: c'è un vecchio che si chiama Walt (sì, proprio come Disney!), che non si trova più a suo agio in un mondo che non riconosce più. La moglie è appena mancata, i figli e i nipoti non lo capiscono, non lo hanno mai realmente considerato  un esempio. Aspettano, con malcelata impazienza, che muoia per impossessarsi dell'eredità, rappresentata da una spettacolare Ford Gran Torino
Walt vive circondato da stranieri, i Hmong, un popolo asiatico che ha usanze del tutto diverse dalle sue, che lui inizialmente disprezza considerandole primitive. Però, poco per volta, Walt impara a conoscere meglio i suoi vicini. Al di là dell'apparenza, gli uomini si comportano tutti in modo simile, e l'amore per la tradizione degli Hmong in qualche modo li affratella con il loro scorbutico vicino. 
Ma poichè gli uomoni si assomigliano tutti,  non tutti gli Hmong sono onesti lavoratori: alcuni vivono da gangster, vessando le loro stesse famiglie e tentando di cooptare i giovani instardandoli su un cammino di violenza e sopraffazione. 
Dopo un inizio difficile a causa del giovane Thao, che viene indotto dal cugino malvivente a tentare di rubare la Gran Torino,Walt si affeziona al ragazzo e decide di aiutare i suoi vicini, anche ricorrendo alla forza quando necessario. Ben presto si rend conto che la violenza non ha altro effetto che quello di chiamare altra violenza, e capisce che l'unico modo per interrompere la spirale della spraffazione è quello di fermare i gangster utilizzando sè stesso come sacrificio umano. Walt cade rigido ed a braccia aperte - quasi un crocefisso - in mano l'accendino con il simbolo della sua unità dei marines. In questo modo al popolo Hmong viene assicurata una vita al riparo dalle vessazioni. La divisione dell'eredità di Walt si rivelerà per molti una delusione e per qualcuno una sorpresa da custodire con cura.

La storia sintetizzata in questo modo mi suona piuttosto familiare, e pensandoci su...ebbene sì,  la trama di Gran Torino rappresenta proprio una parafrasi (con svariati gradi di libertà) evangelica: il passaggio dall'antica alla nuova Alleanza. 

Forma e sostanza a confronto

Certo, con quella faccia Clint Eastwood non sarebbe molto credibile nelle vesti di mite evangelizzatore, ma in quelle di iracondo Dio degli eserciti appare ancora piuttosto convincente.
Gli elementi ci sono tutti: un'eredità a cui tutti vogliono partecipare (la Gran Torino), un popolo che rinnega gli insegnamenti del padre (i figli di Walt), un popolo di stranieri che viene chiamato a partecipare all'eredità (Thao e la sua famiglia); il protagonista è un onnipotente soldato che, tuttavia, rinuncia ad usare le armi e mette al riparo dal male la sua nuova famiglia senza ricorrere alla violenza, ma al proprio sacrificio. Il nuovo popolo viene liberato dal suo "peccato originale" e può godersi la Gran Torino su una magnifica strada litoranea, con il sottofondo della voce di Clint che sussurra una struggente canzone.

Walt, in versione signore degli eserciti
Il film "testamento" di Clint Eastwood propone una scomposizione quasi cubista dei piani di lettura: c'è il livello della amara storia personale di Walt, un vecchio incompreso dai figli che decide di rimettersi in gioco e ripartire da zero adottando una famiglia che gli sente più a sua misura di quella "di sangue". C'è anche - accade spesso nei film di Eastwood - una riflessione sui valori fondanti della civiltà occidentale, ormai in via di abbandono. Ad esempio il contrasto fra la produzione - il "fare" - ed il commercio e la finanza che trasferiscono ma non creano ricchezza; c'è il valore dell'educazione attraverso il lavoro ed il sacrificio: Walt insegna a Thao che un uomo deve vivere del proprio onesto lavoro e gliene fornisce i mezzi, sia attraverso i propri contatti che materialmente (gli presta gli attrezzi, che il cugino gangster gli spezzerà).

In molti hanno individuato in Gran Torino un film contro il razzismo, ma a me sembra una lettura al ribasso. Tutto si può dire , meno che questo sia un film "politically correct". Eastwood mi pare seguire un discorso più ampio contro le convenzioni sociali, il consumismo, la superficialità, il guadagno facile. Insomma le ammonizioni che vengono dall'esperienza di tutti i nonni, ma fatte con il linguaggio dell'arte.

E poi c'è la religione. Già si poteva intravedere una bozza del discorso in Million Dollar Baby , ma qui nella persona di Padre Janovich (un convincente Christopher Carley) la religiosità si materializza, parla, non a caso si fa voce narrante. A dispetto di quanto potrebbe appare a prima vista, il rapporto fra il modo di essere "tutta sostanza e niente forma" di Walt ed il punto di vista della religione "ufficiale", necessariamente più diplomatico,  trova infine una sintesi, un ponte che permette ai due uomini di buona volontà di capirsi ed apprezzarsi.

Gran Torino tocca dunque i più grandi temi: religione, valori, razzismo, perchè no anche la globalizzazione; Eastwood riesce a toccare argomenti fondamentali quasi fingendo di parlare d'altro, quasi temesse di annoiare o di spaventare lo spettatore scoprendo subito le carte. Clint, da quel vecchio saggio che è, suggerisce senza gridare ci racconta una storia che ognuno nel proprio cuore sa di aver già sentito. 

Anche se non possiamo vederlo nella scena finale, non ci pare che il personaggio di Walt sia lì, presente e compiaciuto della buona riuscita del suo piano? 

Walt (il 7° giorno?) si riposa scolando un paio di birre

lunedì 12 dicembre 2011

Midnight in Paris


E' proprio una Parigi da cartolina quella che scorre sotto lo sguardo nelle prime sequenze di Midnight in Paris. Immagini di una città ad uso e consumo dei turisti, ognuno in cerca - forse - di un'idea di cultura, di fascino, di un sogno di eleganza che magari vive ancora solo nell'occhio di chi lo vuole ancora vedere.
Di certo è cosi per Gil, sceneggiatore di Hollywood ed aspirante romanziere. Per lui Parigi è un vero e proprio luogo dell'anima, nel quale sente di respirare la stessa aria dei suoi miti: Hemingway, Fitzgerald, T.S. Eliot.


Gil (un Owen Wilson svampito e stralunato) e la fidanzata Inez (Rachel McAdams, qui in versione "succedaneo di Scarlett Johannson"), si trovano a Parigi, ma pare che stiano visitando due luoghi diversi. Inez, infatti, è a Parigi per fare la turista, magari lasciandosi guidare dall'amico Paul (Michael Sheen, con l'aria di divertirsi un mondo a fare l'antipatico), un pedante intellettualoide; Gil invece ama fare lunghe passeggiate, magari sotto la pioggia, tentando di trovare l'ispirazione che gli manca per finire il suo romanzo, il suo “salto alla letteratura”. In modo magico la città gli regala una chance. Allo scoccare della mezzanotte, in una precisa viuzza, tutte le sere passa un'auto d'epoca che costituisce una porta per tornare agli anni 20, il tempo che Gil avrebbe sempre voluto vivere:  la Parigi della “festa mobile”, tra una bevuta in compagnia di Hemingway e una chiacchierata con Dalì o Picasso.


Nel mondo fantastico che vive di notte, Gil riesce a far leggere una copia del manoscritto del suo romanzo a Gertrude Stein, da cui otterrà (ovviamente!) preziosi consigli. Ma nella realtà parallela non c'è solo il libro: nel corso delle sue scorribande notturne il protagonista incontra Adriana (Marion Cotillard, per correttezza ammetto di essere suo fan sfegatato sin dal lontano 1998), giovane amante di Picasso oltre che di Modigliani e Braque.
Diviso tra due realtà, quella magica della notte e quella frustrante del giorno, Gil si innamora immancabilmente della seducente parigina, il cui sogno è invece quello di vivere la Belle Epoque, i tempi di Toulouse-Lautrec, Gauguin, Degas (i quali a loro volta dichiarano che l'età migliore è stata sicuramente quella del rinascimento). Non c'è scampo: nessuna età è quella "giusta" ed il rischio è quello di passare senza soluzione di continuità da un tempo all'altro, senza sentirsi mai realmente al proprio posto! O forse si può decidere di mettere mano alla propria vita e buttare il cuore oltre l'ostacolo. Parigi  di certo non rifiuterà una piccola, ultima coincidenza...

Una volta tanto non si può trascurare la scenografia, curata da Anne Seibel (già direttore artistico per Il diavolo veste Prada e Hereafter), che passa con nonchalance dall'allestimento di un bistrot nel quale incontriamo Dalì che beve un bicchiere in compagnia di Buñuel e Man Ray, alla ricostruzione della casa-studio di Gertrude Stein (Kathy Bates), alla splendida festa a casa Fitzgerald, per finire con il Moulin Rouge di Toulous-Lautrec. Un film come questo è un'occasione d 'oro per ogni scenografo, e la Seibel non perde l'opportunità giocando con le ricostruzioni d'epoca precise, ma senza perdersi in maniacalismi che non sarebbero in linea con il tono della pellicola.


Interessanti anche i costumi opera di Sonia Grande (The Others, Il Mare Dentro, Vicky Cristina Barcelona, Gli abbracci spezzati), piuttosto curati: i coniugi Fitzgerald sono elegantissimi, Hemingway sembra appena tornato da un safari, il torero Juan Belmonte è un vero dandy. Marion cotillard con il vestitino giallo oro vale da sola il prezzo del biglietto (attenzione anche all'acconciatura "d'epoca", deliziosa).


Il cast di attori è straordinario. Oltre ai già citati troviamo Adrien Brody, un Dalì elegante e divertente, Alison Pill-Zelda Fitzgerald (avvistata già in Milk di Gus Van Sant), non manca nemmeno un ruolo, piccolo ma cruciale, per Carla Bruni nelle vesti di una gentile guida turistica. Un passaggio anche per Lèa Seydoux (vista in Robin Hood, la si attende in un ruolo vilain nel prossimo Mission Impossible: Protocollo fantasma)

Allen pare aver raggiuto un'età ed un'autorevolezza per cui può fare sempre il film che vuole, ed aver deciso di divertirsi un po'. Il film mette un sacco di carne al fuoco, regala corpo e parola a un buon numero dei più grandi artisti e scrittori del secolo scorso, ma lo sviluppo non sceglie con decisione nè la strada della riflessione filosofica, nè quella della battuta fulminante (strada che Allen sembra aver abbandonato dai tempi de La maledizione dello scorpione di giada). Alla fine la pellicola è divertente, anche grazie all'interpetazione ironica di alcuni attori (a mio parere in questo campo Adrien Brody e Michael Sheen spiccano sul resto della troupe) ma dubito che molti spettatori la ricorderanno a lungo,come sicuramente accade per altri titoli di Allen.

Il Gil di Owen Wilson (attore forse troppo bello e prestante per questa parte) pare muoversi fra esaltazione e spaesamento in un continuo salto temporale che riflette la sua stessa lacerazione fra la scelta pragmatica di scrivere dozzinali sceneggiature e l'aspirazione alla vera Arte. Ma non esistono età dell'oro, o meglio ciascuna lo è. Chissà se qualcuno dei miti di Gil, avendone la possibilità, non avrebbe preferito vivere negli anni dieci del duemila. Secondo Allen, e la tesi mi sembra condivisibile, abbandonarsi a un inconcludente “come sarebbe stato bello” porta immancabilemnte a chiudersi delle opportunità  nella vita presente. Questa è la nostra belle epoque, sta noi farla tale e farla ricordare nel futuro come un momento di grande fermento artistico ed ideale, ne abbiamo tutti i mezzi (o almeno Allen sembra esserne convinto).
Ai posteri l'ardua sentenza!


mercoledì 30 novembre 2011

Tower heist - le acciughe fanno il pallone

Quattro uomini in auto, per tacer del cane...
Ebbene sì, lo ammetto: mi sono sempre piaciuti i film con il gruppo di simpatici ladri o truffatori che - a modo loro - fanno giustizia seguendo un codice morale tutto loro. Non mi sono quindi lasciato sfuggire questo Tower heist - Colpo ad alto livello.
La vicenda, ambientata a New York, gira intorno a The Tower, un esclusivo residence per super ricchi caratterizzato per essere dotato di personale di servizio di prim'ordine. Arthur Shaw, ricchissimo magnate di Wall Street, è il più importante inquilino del palazzo ma è anche un bancarottiere con ottime entrature politiche. Oltre al denaro raccolto in borsa, anche i dipendenti di The Tower gli hanno affidato i propri risparmi, che vedono improvvisamente volatilizzati quando Shaw viene arestato dall' FBI.
Josh Kovacs, il manager di The Tower, sentendosi responsabile per i colleghi e preso in giro da Shaw, organizza un team di improvvisati ladri per ritrovare ridistribuire il maltolto ai legittimi proprietari. Il tutto tentando di non farsi arrestare a sua volta da una bella, disincantata e inflessibile agente federale.  

"Incerti del mestiere", sembra dirsi Arthur Shaw - Alan Alda
A proposito di Warrior scrivevo di un film figlio della crisi; anche questo a suo modo lo è, ma sceglie la via della commedia anzichè quella del dramma, senza per questo "mordere" di meno. L'Arthur Shaw di Alan Alda (sempre un fuoriclasse quando recita a New York!) è un vero squalo della finanza, fa parte di quella genìa di finanzieri che cade sempre in piedi lasciando dietro di se una scia di lacrime e, a volte, sangue. Non si fa scrupoli di fronte a nulla, figuriamoci di fronte ai sudati risparmi dei suoi stessi domestici! Josh Kovacs (Ben Stiller, inosolitamente e apprezzabimente moderato nella mimica facciale) rappresenta invece l'altra faccia della medaglia: indefesso lavoratore, professionale fino al parossismo, lo vediamo a casa, solo, stirarsi i pantaloni perchè siano impeccabili per il giorno successivo. A Josh Kovacs non va giù che quelli come Shaw la facciano franca una volta di più, non a spese dei suoi colleghi. Recluta quindi un gruppetto di "disperati", il cognato ossessionato dall'approssimarsi della paternità, un giovane lift che si spaccia per esperto di elettronica, un inqulino di The Tower sfrattato a causa della crisi, Mr. Fitzhugh, un ladruncolo di quartiere, Slide, che deve essere la "mente criminale" del piano e infine Odessa, una mastodontica cameriera esperta di casseforti.
Casey Affleck e Michael Peña meditano vendetta mangiando hamburgers
Nonostante la tematica possa farsi insidiosa, il regista Brett Ratner (qualcosina di più di un onesto professionista: X-Men conflitto Finale, Rush Hour 2 e 3, The Family Man, Red Dragon, moltissimi videoclip per Mariah Carey e Jessica Simpson, oltre a quello - bello - di Beautiful Stranger di Madonna) è molto attento a non uscire dal registro della commedia.
Fra le sequenze memorabili: la scena iniziale con la banconota da 100$ che si scopre essere il fondale della piscina sul tetto del grattacielo nella quale nuota Alan Alda, comprensibilmente soddisfatto di sè. Per la meravigliosa assurdità della situazione, quella del trasporto della Ferrari in ascensore.
L'impareggiabile Odessa e un imbolsito Mr. Fitzhugh
Il film è corale perciò una menzione non si nega a nessuno!
Ben Stiller (Ti presento i miei e sequels, l'esilarante Zoolander, Starsky e Hutch, Una notte al museo, Greenberg, I'm still here di Casey Affleck): un Josh Kovacs leader iperprofessionale ed umano, un uomo che sa accettare di pagare per i suoi sbagli. Da Greenberg in poi forse Stiller sta finalmente diventando adulto, è bello vedere i giovani crescere!
Matthew Broderick (Il mitico War Games, Lady Hawke, Frenesie militari - che è bello anche se il titolo italiano fa schifo - Il boss e la matricola, Inspector Gadget): un bel rientro, anche se un po' di giri di corsa del Central Park non gli farebbero male. Chissà perchè lo doppiano sempre con una voce un po' da scemo. Comunque bentornato!
Casey Affleck (Da morire di Gus Van Sant, American Pie, la trilogia di Ocean's eleven) : in teoria è il fratello sfigato di ben Affleck. In pratica ho il dubbio che dei due sia quello che fa solo quello che gli piace davvero.
Tea Leoni (Ragazze vincenti, Bad Boys, Deep Impact): la coriacea agente dell'FBI. Abbatte Josh con un laccio californiano, poi si ubriaca con lui e infine lo sbatte in prigione. Però lo ama, si vede benissimo! Cosa si può chiedere di più ad una bella donna?
Alan Alda (una carriera con Woody Allen, Mad City con Costa-Gavras, The Aviator con Scorsese): si vede che a fare il cattivo presuntuoso si diverte. E noi con lui.
Eddie Murphy (48 ore, Una poltrona per due, Beverly Hills Cop, Il principe cerca moglie, Il professore matto): solita parlantina sciolta e solito trasformista che sa rendere il personaggio a suo agio e credibile sia con la cuffia gangsta sulla zucca sia in impeccabile completo grigio. In rientro dopo un periodo un po' appannato. Non so a voi, a me Eddie mancava.
Michael Peña (Million dollar Baby, Babel, Crash di Haggis, Leoni per agnelli): un po' saccente, un po' stupido, un po' genialmente naif. Il prototipo del middle man. Perfetto per questa parte.
Gabourey Sidibe (Precious): last ma assolutamente not least, grande interpretazione e personaggio divertente (Odessa Montero). Quando si lancia col suo carrello contro l'agente di guardia è semplicemente irresistibile. In assoluto quella che ci ha fatto ridere di più! 
Una menzione anche per il direttore della fotografia: Dante Spinotti (Nemico Pubblico, X-Men Conflitto finale, Pinocchio di Benigni, L.A. Confidential, Heat, Hudson Hawk, Manhunter ed il suo remake Red Dragon), uno che ci rende onore nel mondo.

A parte il cattivo, i personaggi sono tutti una apologia dell'uomo normale: infatti sono mediamente sbruffoni, incompetenti, egoisti; però al tempo stesso sono bravi lavoratori ed hanno cuore e buone intenzioni. Insomma, pare dirci Ratner, per salvarci occorre fare squadra, non c'è bisogno di essere dei fuoriclasse, ma di lavorare tutti insieme per riguadagnare il tesoro che qualche furbetto ha cercato di nascondere là, proprio sotto ai nostri occhi. Molti pesci piccoli possono battere anche lo squalo più grande e cattivo!

Ben Stiller ed Eddie Murphy in forma smagliante

lunedì 7 novembre 2011

Le avventure di Tintin: il segreto dell'unicorno


A circa 40 anni dall'ultimo film, Tintin torna sul grande schermo. Il progetto è firmato da Steven Spielberg nelle vesti di regista e Peter Jackson (di cui aspettiamo con trepidazione il prossimo Lo Hobbit) come produttore. Se aggiungiamo che il film si presenta con contenuti tecnici di grande impatto come la realizzazione in 3D e, soprattutto, le riprese effettuate con la tecnica del motion capture, ce n'è più che abbastanza per attirarmi in sala.
Prima però una riflessione sul 3D. Questio tipo di tecnologia dovrebbe essere ormai consolidato, tuttavia mi pare che venga utilizzato più come "ariete mediatico", che come reale plus espressivo. Inoltre il fatto di dover indossare gli occhialini mi infastidisce: ne ho comprati diversi ed ogni volta continuo a ricomprarli perchè non mi ricordo dove li ho messi, o se li ho buttati. Per soprammercato in tutti i titoli che ho visto in 3D,  nei primi minuti l'effetto è piuttosto eclatante, per poi affievolirsi dopo poco. Solo un effetto dato dall'abituarsi degli occhi? Fate la prova: togliete gli occhiali in qualche scena e se ci vedete bene vuol dire che sostanzialmente l'effetto 3D non c'è. Fine dell'invettiva.


Tornamo dunque ad argomenti più divertenti: l'idea è quella di rispolverare un classico del fumetto anni 30 utilizzando attori "veri" per fare da base al disegno animato. In breve, gli interpreti recitano con una serie di sensori addosso per registrarne i movimenti attraverso uno speciale sistema di telecamere. In seguito il movimento viene "vestito" con il disegno, rendendo possibile una aderenza al fumetto favolosa conservando d'altro canto una autentica "interpretazione" dei personaggi da parte degli attori.


La sceneggiatura è ispirata alle storie originali pubblicate nella prima metà degli anni 40: il famoso reporter Tintin passeggiando in un mercatino delle pulci si imbatte in un modellino di una nave del 700. Il modelllino contiene però un indizio indispensabile per trovare un tesoro nascosto da secoli, sulle cui tracce si trovano l'infido Sakharine i servizi segreti ed anche l'interpol, con gli impagabili agenti in bombetta Dupont & Dupond.
In una sarabanda di peripezie che lo porteranno a bordo di un cargo, il Karaboudjan, con un comandante alcolista tenuto pigioniero dalla propria ciurma ormai passata la servizio di Sakharine. Proprio il comandante, il capitano Haddock, si rivela essere una delle chiavi per la soluzione del mistero.
Tintin ed Haddock decidono di unire le forze ed in un susseguirsi mozzafiato di fughe su scialuppe di salvataggio, furti di idrovolanti, e avvicenti duelli fatti utilizzando delle gru portuali al posto delle spade, rincorreanno gli indizi seminati da un coraggioso antenato di Haddock, ma soprattutto si scopriranno inseparabili amici, pronti a partire per la prossima avventura.



I "costumi", o meglio l'abbigliamento dei personaggi, così come le scenografie, hanno uno spettacolare livello qualitativo, restando insieme fumettistici e realistici. Ogni immagine è curata nei minimi dettagli.
La sceneggiatura consente a Spielberg di svariare fra diverse scene d'azione piuttosto coinvolgenti: la battaglia dei velieri in fiamme, il volo in idrovolante ma anche la fuga dal Karaboudjan sono all'altezza del miglior Spielberg. Fra le molte finezze stilistiche sparse qua e là quella che preferisco l'inquadratura di Tintin che si specchia in quatrro o cinque diversi oggetti contemporaneamente nella sequenza al mercato delle pulci.



Gli attori non possono essere giudicati, ma vi propongo un parallelo fra le versione originale e il personaggio "cartoanimizzato"

Jamie Bell (Billy Elliot, King Kong, Flags of our fathers, Jane Eyre)  è Tintin



Andy Serkis (Tutta la trilogia del Signore degli anelli nel ruolo del Gollum,  King Kong, The Prestige), qui insolitamente simile a sè stesso nel ruolo del Capitano Haddock

Daniel Craig (già con Spileberg inMunich, famoso per 007 - Casino Royale, 007 - Quantum of solace, il recente Cowboys Vs Aliens) è il perfido Sakharine


Simon Pegg (L'alba dei morti dementi, Mission Impossible III, Le cronache di Narnia) e Nick Frost (L'alba dei morti dementi, I love radio rock ) dimostrano l'affiatamento dei veri amici interpretando i meravigliosi Dupont e Dupond




In conclusione: arrivato un po' prevenuto, ho ritrovato in sala l'atmosfera avventurosa e ironica degli albi a fumetti per quasi due ore di azione ininterrotta. Dai 7 ai 99 anni, buon divertimento!

giovedì 27 ottobre 2011

This must be the place - Naive melody


Paolo Sorrentino (Le conseguenze dell'amore, L'amico di famiglia, Il Divo) è la risposta alla domanda "ma perchè in Italia non ci sono più registi di livello internazionale?". Ecco, uno c'è: è - ancora - giovane, è bravo ed ha raggiunto una credibilità a livello internazionale.
Preceduto da un ossessivo battage pubblicitario This must be the place è il (primo?) film internazionale di Sorrentino. Internazionale per la produzione, per il mercato di riferimento ed anche per il cast artistico.
Le mie aspettative erano piuttosto alte, e ammetto subito che non sono andate deluse.

La storia (Sorrentino è autore anche della sceneggiatura) di per sè è piuttosto linerare, ma contiene numerose divagazioni che la rendono difficilmente sintetizzabile. Cerco di riassumere: il film è diviso in due parti, la prima ambientata in Irlanda e la seconda negli Sati Uniti. La prima parte è piuttosto statica e descrive il protagonista, Cheyenne: una rockstar ormai in disarmo che continua a truccarsi tutti i giorni come se stesse sempre per salire sul palcoscenico. In realtà Cheyenne ha da tempo rinunciato alla carriera artistica e vive nella propria lussuosa villa una quotidianità apatica in compagnia della affettuosa moglie Jane, di professione pompiere (!). I principali svaghi di Cheyenne sembrano essere le passeggiate con la giovane Mary (che si intuisce avere una dolorosa connessione con il burrascoso passato della popstar) e gli incontri con alcuni amici dalla personalità non meno borderline della sua. La noiosa routine viene improvvisamente interrotta da una telefonata proveniente da New York: il padre, con cui non parla da trenta anni, è in fin di vita. Cheyenne però è terrorizzato dai viaggi in aereo ed è quindi costretto a raggiungere l'America in nave. Quando arriverà sarà già troppo tardi. Non tardi però per scoprire che il padre, prigioniero in un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale, aveva dedicato la propria vita alla ricerca di uno dei suoi aguzzini. Cheyenne trova un indizio forse decisivo per la ricerca e decide di terminare l'impresa paterna. Qui inizia il film nel film: un vero e proprio road movie in cui Cheyenne viaggerà nell'America profonda fra paesaggi desolati e struggenti ed incontrando una incredibile serie di personaggi. Al ritorno da un viaggio tutti torniamo cambiati, ma è impossibile prevedere in anticipo come; di certo non vi faremo il torto di rivelarlo qui!


Dal punto di vista della scenografia segnalo la cura con cui è stata realizzata la villa "da star" di Cheyenne, con la piscina vuota utilizzata per giocarci a pelota con la moglie, gli ambienti interni studiatissimi e pieni di pezzi d'arredamento esclusivi.
Come sempre nei film di Sorrentino curatissima la colonna sonora, basata su lavori di David Byrne.

Sorrentino ci regala e alcune immagini di bellezza compositiva assoluta e diverse sequenze davvero magistrali.
Fra le mie preferite la scena in cui Cheyenne riceve la telefonata dagli USA, con il filo rosso e attorcigliato del telefono che divide la scena in una perfetta diagonale; una meravigliosa inquadratura - che sembra un dipinto di Edward Hopper - mentre aspetta la moglie del nazista di fianco a una parete di assi di legno. Nella seconda parte del film le inquadrature di paesaggio belli e desolanti la fanno da padrone.
La sequenza in cui Jane fa tai-chi in giardino è di grande padronanza tecnica e grande ironia al tempo stesso, così come quella in cui Cheyenne balla dentro la stanza di un motel al ritmo di "The passenger" di Iggy Pop.
Un grande regalo è la scena dell'esibizione di David Byrne, praticamente un clip completo incapsulato nel film, con il meraviglioso trompe l'oeil iniziale.
Insomma come avrete ormai intuito, dal punto di vista visuale questa è una pellicola che non si fa mancare nulla, e lo spettatore non può che tornare a casa soddisfatto.


Sean Penn regala a Cheyenne una gestualità favolosamente timida e una risatina che taglia come un rasoio. Un personaggio che si nasconde dietro una maschera per paura del dolore, il proprio e di chi lo circonda: in lui apparenza ed essenza sono in assoluto contrasto. Sembra debole e invece lo scopriamo intimamente forte e perseverante.Sembra assente ma in realtà non gli sfugge nulla. Sembra apatico ma sa avere lampi di geniale prontezza, come quando sfida a ping pong due ragazzi in un diner sperduto fra le montagne. Sembra "suonato" dopo una vita di eccessi, ma in realtà vive grandi drammi interiori (commovente la confessione che fa di fronte ad uno sbigottito David Byrne nel ruolo di sè stesso).
Frances McDormand: è una Jane (la moglie di Cheyenne) innamorata del proprio uomo, tenera e buffa al tempo stesso. Jane è un personaggio forte, ama Cheyenne e tenta in tutti i modi di mantenerlo legato ad un realtà da cui parrebbe voler fuggire.
Eve Hewson impersona Mary, la giovane amica di Cheyenne. Promossa nell'interpretazione della adolescente triste, la spettiamo però nei prossimi ruoli per capire di che pasta è fatta davvero.
Harry Dean Stanton: un breve cameo nel ruolo dell'uomo che ha inventato la valigia trolley. Una faccia come la sua non poteva mancare nel viaggio di Cheyenne nel cuore dell'America rurale, ed è ancora e sempre un maestro di recitazione.

Quella che ci racconta Sorrentino è una storia naif e commovente (una naive melody, dal titolo completo della canzone dei Talking Heads). La difficoltà di Cheyene nel diventare adulto, di accettare il lato doloroso della vita, di superare i rimorsi mi è parso un tema molto attuale. Peraltro è proprio il suo sguardo infantile sulle cose, la sua sincerità candida ed irresponsabile, che lo rende irresistibile.
Capire cosa è necesario lasciarsi alle spalle e quando è il momento di farlo. Questo in definitiva mi è parso il tema di fondo della pellicola.
Vivere da adulti restando un po' bambini...ecco un viaggio che vale sempre la pena di intraprendere!


giovedì 6 ottobre 2011

Carnage - You can't always get what you want



Carnage segna il rientro di Roman Polanski dopo il deludente (e noioso) The Ghost Writer. Presentato a Venezia, non ha raccolto premi, rischia però di rifarsi al botteghino. Diciamo subito che l'operazione è di quelle che fanno esclamare "ne facessero di più di film così!". Carnage concilia un umorismo acido con una amara riflessione di costume. Per la caratteristica di essere girato praticamente in un unico ambiente (il soggiorno della famiglia Longstreet), ci ha fatto pensare a Buried, solo che Polanski nella cassa ci mette non una ma quattro persone, e poi si diverte a guardare cosa succede.


La trama, tratta da una pièce teatrale, è composta quasi di nulla. L'antefatto ci mostra due ragazzini picchiarsi in un parco cittadino. I genitori del piccolo aggressore, i Cowan si recano a casa di quelli della vittima, i Longstreet, per dirimere la questione e stabilire come comportarsi. Passeranno la giornata intenti in un gioco al massacro psicologico, che attraverso un continuo cambio di alleanze (Cowan vs Longstreet, uomini vs donne, etc..) lascerà i personaggi (tutti?) nudi e disarmati di fronte alla propria irredimibile meschinità.


Il film utilizza praticamente un solo ambiente: la casa - ed in particolare il soggiorno - della famiglia Longstreet. Si intuisce l'ambientazione newyorchese dal paesaggio che si intravede dalle finestre, ma Parigi, Londra, Bruxelles non avrebbero tolto nulla all'efficacia della storia. Probabilmente se il film è ambientato negli States è più appetibile per quel mercato. La casa, dicevamo, riflette perfettamente i Longstreet o meglio riflette perfettamente l'idea che i Longstreet vorrebbero avessimo di loro: un affastellamento senza costrutto di libri di arte e pezzi di arredamento di design, senza tuttavia un'idea che armonizzi tanta cultura. Come vedremo, non è un caso!
I movimenti di macchina alternano riprese degli ambienti a movimenti in soggettiva, quasi in fish-eye sui singoli personaggi. Ci siamo chiesti per lunghi minuti se la soggettiva cambia in base al personaggio di cui assume il punto di vista (più in alto per la Winslet, più in basso per la Foster, per capirci). Alla fine abbiamo concluso di no, ma l'impressione è comunque quella di trovarsi in mezzo al battibecco.

I costumi riflettono lo stereotipo dei personaggi: i Longstreet, la famiglia liberal, indossano sobri maglioncini, mentre i Cowan, la famiglia in carriera, si presentano in elegante completo e soprabito lui e professionale gonna longuette nera con camicia bianca e filo di perle lei.


Gli attori  sono tutti bravissimi e di grande esperienza,  resistono alla tentazione di gigioneggiare rubandosi la scena a vicenda, meritano un'occhiata ciascuno:

John C. Reilly (una carriera straordinaria premiata -finora- da una candidatura all'Oscar per Chicago) interpreta Michael Longstreet, venditore di sanitari e accessori per la casa. Rappresenta l'americano medio, in bilico fra ragionevolezza e tentazione di risolvere le cose "fra uomini". Tenta di dare un'immagine di sè un po' più elegante di quello che non è, ma una volta scoperto sembra che abbia una gran voglia di mandare tutti al diavolo e andare a farsi una passeggiata nella prateria.

Jodie Foster è Penelope Longstreet, aspirante scrittrice di denuncia sociale sui temi dell'Africa. Si sente migliore del mondo che la circonda e non si capacita di come tutti gli altri non condividano il suo modo politicamente corretto di vedere le cose. La Foster si conferma attrice di categoria superiore, basta vedere come riesce a vibrare di sdegno gonfiando la vena della fronte: monumentale!

Kate Winslet una meravigliosa prova, secondo noi di magistrale misura, nel ruolo di Nancy Cowan, madre in carriera oberata dallo stress e dai sensi di colpa mai sopiti nel rapporto con il figlio. In continua oscillazione fra rassicurazione (siamo adulti, siamo ragionevoli...) e isteria. Due scene tutte da godersi in poltrona:quando vomita sui preziosi libri d'arte di Penelope e quando impazzisce perchè le maltrattano la borsa (come non solidarizzare??)!

Last but not least Christoph Waltz - Alan Cowan, il papà del piccolo aggressore. Waltz, che tutti ricordiamo magistrale "cacciatore di ebrei" in Inglorious Basterds, interpreta qui un altrettanto  luciferino personaggio, avvocato di fantomatiche amorali multinazionali farmaceutiche. Da ogni sua parola, da ogni alzata di sopracciglio partono sciabolate sulle ipocrisie e le contraddizioni degli altri personaggi. Da vero "dio della carneficina" (titolo originale della piece da cui è tratto il film) è l'unico personaggio che, nella propria totale amoralità ed indifferenza per il prossimo, mantiene una tragicomica coerenza.

Il film annovera fra i suoi pregi anche quello di non dilungarsi oltre il necessario, 80 minuti circa. Da più parti si è letta l'ipotesi che Polanski con questo film avanzi una critica alla società borghese. A nostro avviso si spinge invece molto più in là: la critica, spietata è per tutta la società occidentale, ormai incapace di contestualizzare e dare l'adeguato peso persino a una banale baruffa fra ragazzini. I personaggi di Carnage hanno desideri a cui non sanno come dare forma, si perdono in oceani di parole, cortesie di facciata, piccole e grandi ipocrisie nel disperato tentativo di trovare una soluzione condivisa, quando - ma ormai ce lo siamo dimenticati un po' tutti - un paio di sganassoni bene assestati ed una settimana senza Nintendo avrebbero forse raggiunto con sufficiente efficacia gli scopi educativi dei personaggi.



All'uscita dalla sala ci si scopre divertiti, ma fatalmente torna in mente la profezia degli indiani Hopi citata in Koyaanisquatsi di Godfrey Reggio: "È possibile che un giorno un recipiente di cenere sia scagliato dal cielo, che arda la terra e faccia ribollire gli oceani." Se davvero le cose stanno come ci fa vedere Polanski, quando succederà potremo ben dire di essercelo meritato!

giovedì 28 luglio 2011

Harry Potter e i doni della morte 2 - love devotion & surrender


In un periodo in cui i titoli interessanti sembrano latitare, non potevamo di certo perderci l'occasione per vedere (non in 3D perchè mi da fastidio) il film conclusivo della saga di Harry Potter. Ebbene sì, lo ammettiamo, siamo fanatici della prima ora del maghetto con la cicatrice e gli occhiali, di cui abbiamo atteso ed avidamente divorato i vari capitoli in libreria, prima ancora che su pellicola. Tuttavia, sarebbe ingiusto lasciar prevalere il punto di vista del fan su quello dello spettatore che paga il biglietto, e tenteremo di attenerci a questo principio.
La trama segue la seconda parte del capitolo conclusivo, laddove si tirano le fila e tutte le trame (e le innumerevoli sotto-trame) trovano la loro conclusione. In questo senso si può ammettere che il regista (Peter Yates, inglese e già autore di alcuni dei capitoli precedenti) dia per scontata una certa conoscenza "di base" del contesto e dei personaggi. Harry (Daniel Radcliffe, cui auguriamo di sottrarsi alla "maledizione del personaggio") ed i suoi amici Hermione (Emma Watson, più passano i film e più la sua capigliatura si fa normale) e Ron (Rupert Grint, toccante in In viaggio con Evie) sono alla disperata ricerca degli "horcrux", gli oggetti magici in cui il perfido Lord Voldemort (Ralph Fiennes, irriconoscibile sotto al trucco) ha riposto i frammenti della propria anima nel tentativo di rendersi immortale. Nel frattempo Voldemort ha instaurato nel mondo un vero e proprio regime di stampo nazista, basato sulla purezza della razza (i maghi sono la razza eletta) e sulla manipolazione delle coscienze; i tre eroi, dunque, oltre alla difficoltà del compito sperimentano anche quella del muoversi in un ambiente sempre ostile e pericoloso. Dopo diverse peripezie i protagonisti torneranno ad Hogwarts, la scuola dei maghi dove si svolge la maggior parte della saga. Lì avverrà la battaglia finale fra le forze del bene e quelle del male (bellissime le scene con le statue di pietra che prendono vita per salvare la scuola e lottano contro giganteschi troll di montagna). Lì verranno chiusi tutti i conti e Harry affronterà Voldemort in un duello al quale solo uno dei due potrà sopravvivere.

la rabbia e l'orgoglio?

E' veramente complicato ridurre una cosmogonia di migliaia di pagine in poche parole, ma lo è altrettanto il farlo per immagini. Il film sceglie dunque di operare alcuni tagli e semplificazioni, restando però piuttosto fedele al testo originale, nella lettera e - soprattutto - nello spirito. Alla fine la figura più difficile è quella di Harry, il cui problematico mondo interiore viene minuziosamente scandagliato nei libri e lasciato invece abbondantemente all'intuizione dello spettatore nel film. Il risultato è un personaggio un po' isterico e a volte sinceramente antipatico. Anche il rapporto amoroso con Ginny Weasley (Bonnie Wright) viene quasi completamente ignorato.
La scenografia è, come da tradizione, basata su elementi gotici e vittoriani nel mondo dei maghi e contemporanei in quello dei "babbani". Qualche dettaglio in più all'interno di Hogwarts (ci pare di ricordare che le fantasmagoriche scale in movimento siano state realizzate solo nel primo capitolo) avrebbe potuto donare un appropriato senso di sorpresa di fronte alla magia.
I costumi non sono particolarmente interessanti, ci è sempre parsa una occasione persa quella di scegliere di non rappresentare i maghi con vestiti eccentrici, che avrebbero dato un tocco in più di humour, oltre che sottolineare la differenza di approccio a cosa è importante rispetto ai "babbani".
Fra gli interpreti, menzione d'onore ad Alan Rickman per un Severus Piton ambiguo fino alla fine, caratterizzato da un'aspetto simile in modo inquietante (per la gioia degli spettatori italiani) ad un Renato Zero in salsa celtica.
Fra le scene degne di nota, quella all'interno della banca Gringott, che ad alcuni è parsa una citazione di "Mary Poppins" e quella della battaglia di Hogwarts, comprensibilmente accostata ad alcune scene del "Signore degli anelli". A noi invece il duello tra Harry e Voldemort ha ricordato quello tra Luke Skywalker e l'imperatore di "Guerre stellari", ma senza l'aspetto seduttivo del "lato oscuro" che a Voldemort manca completamente, preso com'è dalla propria furia omicida.

Neville, si può essere eroi anche in cardigan

Un aspetto che abbiamo sempre considerato interessante è come in Harry Potter i ragazzi siano veri protagonisti, fautori del proprio destino, gli adulti sono lì per guidare, aiutare, a volte ingannare, mai sostituire i giovani. Mano a mano che da ragazzi si fanno adulti vengono chiamati a fare delle scelte ed a sopportarne le conseguenze. Emblematica la figura di Neville Paciok, giovane mago pasticcione spesso deriso sia dai compagni che dagli avversari, che posto di fronte alla difficile scelta fra il bene ed il male (non è filosofia, la scelta implica la vita o la morte immediata) butta il cuore oltre l'ostacolo - unico fra tutti - e sceglie il bene "a prescindere", sfidando il trionfante Voldemort in modo - in apparenza - insensato.

It's over!

E' spesso un mondo senza pietà quello di JK Rowling, in cui i buoni muoiono come e più dei cattivi, e nemmeno all'adolescenza è concessa un po' di irresponsabilità. Ma non è forse uno specchio fedele del mondo reale, anche se non è piacevole ammetterlo?
Hary Potter  è nato, e rimane, un racconto per ragazzi e di ragazzi, in cui il "restare giovani dentro" fa la differenza e cosa più dell'amore ci fa restare giovani? Harry da bambino viene salvato dall'amore di sua madre, più forte della peggiore magia oscura, una volta cresciuto combatte a ben vedere usando lo stesso - invincibile - incanto, che voi-sapete-chi non potrà mai comprendere: la gratuità dell'amore che non si mette al primo posto.
Ricorrendo a questa magia, che anche a noi babbani è concesso sperimentare in mille forme ogni giorno, qualunque cosa succeda...la fine potrebbe mai essere una brutta fine?

a kiss before dying?

mercoledì 8 giugno 2011

The tree of life - the answer is blowing in the wind


Ispirati ed incuriositi dalla vittoria al festival di Cannes, non potevamo perderci l'occasione di vedere per voi The tree of life, ultima opera di Terrence Malick (La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa, Il nuovo mondo), stravagante autore texano da sempre in odore di genialità. Il problema con questo tipo di film è che viene preceduto dalla propria fama rendendo assai difficoltoso evitare il pre-giudizio. Sgombriamo subito il campo dai possibili malintesi: Malick sta al cinema circa allo stesso modo in cui James Joyce sta alla letteratura: per apprezzarlo è rilevante lo stato d'animo del momento, non va scelto se avete in mente una serata memorabile in compagnia di un partner che ama i film d'azione o le commedie romantiche!
Se invece, come Malick, avete sempre avuto interesse per le domande fondamentali, allora sì, mollate tutto e dirigetevi al cinema più vicino, qui c'è pane per i vostri denti!
A dispetto delle domande "importanti", il film non si nasconde dietro grandi metafore, nulla viene omesso, nulla resta non detto, il che implica una durata di quasi due ore e mezza, che passano senza eccessiva difficoltà.


Non si può parlare di trama in senso stretto, diciamo che il film accosta un piano universale ad uno personale, simbolizzato dalla vicenda di Jack (interpretato da adulto da un mito vivente, Sean Penn, da ragazzo dal giovane e talentuoso HunterMcCracken), che vediamo crescere in una tipica famiglia americana degli anni 50 in cui il principio maschile è rappresentato attraverso un padre autoritario (Brad Pitt, estremamente convincente) e quello femminile da una madre amorevole (Jessica Chastain, in stato di grazia; la attendiamo nel prossimo Coriolano di Ralph Fiennes).
Spesso al posto del dialogo vengono riportati i pensieri dei personaggi, come un semplice sussurro fuori campo.
Vediamo Jack, ed i suoi genitori, sperimentare gioe e dolori: la nascita dei figli, la lacerante perdita di uno di essi, fortune e miserie lavorative, l'intimità, l'incomprensione che porterà Jack ed il padre ad allontanarsi, pur consapevoli di essere l'uno lo specchio dell'altro. Ritroviamo Jack affermato professionista in una moderna metropoli, alle prese con le domande fondamentali: CHI? PERCHE'? COSA DEVO FARE?
Il montaggio - estremamente complicato - destruttura la trama in frames scollegati dall' asse temporale. Alla vicenda umana si giustappone quella universale, un discorso che Malick riprende veramente dall'inizio, dal big bang fino alla nascita del mondo e delle ere. Questa parte del film si compone di immagini struggenti che non solo a noi - a quanto si legge nelle critiche - hanno ricordato Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio. La lunghezza, e in qualche modo la prolissità di questa parte del film, hanno suscitato polemiche rispetto alla loro reale necessità. A nostro parere, pur essendo la sintesi un dono, senza questa lunga parentesi il film non sarebbe la stessa cosa, sprofondatevi nella poltrona e godetevi semplicemente la bellezza delle immagini; condensare la storia della vita in alcune decine di minuti denota concisione!


Un plauso a Emmanuel Lubezki  (messicano, a dispetto del nome - una filmografia troppo lunga per poter essere citata), magistrale direttore della fotografia. Ci è piaciuta moltissimo la luce con cui riprende la famiglia di Jack.
Bellissimi i costumi di Jaqueline West, perfettamente calata nell'atmosfera anni 50.


In conclusione il filosofo Malick realizza un film complesso per giungere a conclusioni semplici: ogni minuto non speso con amore è un minuto perso. Come scoprirà il padre di Jack, siamo troppo piccoli per illuderci di contare qualcosa in questo universo. Però - come ruiscirà a Jack adulto - possiamo cogliere, magari nel volo di uno stormo di uccelli fra assurdi grattacieli, in un albero verde piantato nel cemento, in un filo di vento, LA risposta che Malick ci esplicita nell'ultima immagine: un ponte lanciato verso l'orizzonte.