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lunedì 28 maggio 2012

Blog Award Backlog



Grazie a Torino Style, che mi ha graziosamente conferito il suo Blog Award Backlog, ho l'occasione per raccontare qualcosa dell'uomo che si cela dietro al Talking Mule.
Spero di farcela a raggiungere le "7 cose di me" che costituiscono il piccolo pegno da pagare in cambio della segnalazione.

E allora non indugiamo oltre, in ordine più o meno sparso forse non tutti sanno che...

Devo la mia nascita come recensore a mia sorella Giulia. Quando era più giovane era iscritta ad un cineforum in inglese dove la rifornivano di dispense con le recensioni dei vari film pubblicate sui quotidiani e sulle riviste specializzate (le conservo ancora tutte in archivio). E' così che ho scoperto che il film è sempre nell'occhio di chi guarda e che i cattivi recensori fanno processi alle intenzioni e non a quello che hanno visto.

La passione per i muli mi è stata geneticamente trasmessa da mio padre, ufficiale di artiglieria da montagna (non chiamatelo alpino!). Anche io ho prestato servizio nelle truppe alpine, ma i muli purtroppo non c'erano più da un pezzo. Uno dei miei sogni proibiti è avere una scuderia di muli e asini.

Oltre al cinema sono appassionato di due ruote, mi sposto abitualmente in scooter e periodicamente terrorizzo la mia famiglia annunciando acquisti di moto superpotenti che ovviamente non mi potrò mai permettere. In realtà, vista la mia passione per lo stile britannico l'unico "ferro" che comprerei davvero è una tranquilla e stilosissima Triumph Bonneville.

Anche se il mio attuale look professional-manageriale non lo lascerebbe facilmente supporre, attorno ai 20 anni ho fatto parte come bassista di svariati gruppi punk rock (genere musicale di cui resto appassionato); venne presto il momento in cui mi resi conto che sarei sempre stato scarso, così adesso la musica la ascolto e basta!

Il mio tipo di vacanza preferito viaggiare in auto o in moto con una meta in mente ma senza troppi vincoli sulla strada da fare e dove e quanto fermarsi. Le mie città preferite nel mondo sono New York, Londra e Budapest, per cui nutro un affetto particolare.

Pratico il canottaggio, uno sport da pazzi scatenati in cui si fa una fatica bestiale e ci si sfasciano le mani con orrende piaghe che la gente normale di solito scambia per un principio di lebbra. Nella mia città (Torino) è bellissimo remare in mezzo al parco del Valentino, circondati dal verde e potendo ammirare uno sfondo di palazzi e monumenti bellissimi. La prima volta che sono salito in barca ero piuttosto dubbioso, poi alzando lo sguardo ho visto lo skyline cittadino con una prospettiva che c'è solo dall'acqua. Non sono più sceso!

E' stato proprio grazie a Torino Style che ho iniziato a scrivere recensioni di cinema. Qui c'è il mio primo vagito nel mondo della critica: A Single Man di Tom Ford.  Ehmmm...almeno ha il pregio dell'essenzalità!


Dopo avervi rivelato questi "segreti", torno a nascondermi dietro al mio equino alter ego. Un gioioso nitrito a tutti!

giovedì 27 ottobre 2011

The Talking Mule


Oggi inizia le trasmissioni The Talking Mule.

Il nome l'ho scelto perchè guardavo da piccolo con mio papà i film di Francis, il mulo parlante, e mi sono sempre rimasti nel cuore. Poi Francis si chiama quasi come me, e proprio come me è un personaggio testardo e un po' saccente.
E poi è un film, e a me il cinema piace moltissimo.

Negli ultimi due anni ho scritto diverse recensioni per Torino Style, e mi è piaciuto tanto che ho deciso di aprire un blog apposta. Per parlare di cinema e dei film che mi hanno colpito e dei pensieri che mi hanno fatto venire in mente.

Io ce la metto tutta, spero vi piacerà!

giovedì 28 luglio 2011

Harry Potter e i doni della morte 2 - love devotion & surrender


In un periodo in cui i titoli interessanti sembrano latitare, non potevamo di certo perderci l'occasione per vedere (non in 3D perchè mi da fastidio) il film conclusivo della saga di Harry Potter. Ebbene sì, lo ammettiamo, siamo fanatici della prima ora del maghetto con la cicatrice e gli occhiali, di cui abbiamo atteso ed avidamente divorato i vari capitoli in libreria, prima ancora che su pellicola. Tuttavia, sarebbe ingiusto lasciar prevalere il punto di vista del fan su quello dello spettatore che paga il biglietto, e tenteremo di attenerci a questo principio.
La trama segue la seconda parte del capitolo conclusivo, laddove si tirano le fila e tutte le trame (e le innumerevoli sotto-trame) trovano la loro conclusione. In questo senso si può ammettere che il regista (Peter Yates, inglese e già autore di alcuni dei capitoli precedenti) dia per scontata una certa conoscenza "di base" del contesto e dei personaggi. Harry (Daniel Radcliffe, cui auguriamo di sottrarsi alla "maledizione del personaggio") ed i suoi amici Hermione (Emma Watson, più passano i film e più la sua capigliatura si fa normale) e Ron (Rupert Grint, toccante in In viaggio con Evie) sono alla disperata ricerca degli "horcrux", gli oggetti magici in cui il perfido Lord Voldemort (Ralph Fiennes, irriconoscibile sotto al trucco) ha riposto i frammenti della propria anima nel tentativo di rendersi immortale. Nel frattempo Voldemort ha instaurato nel mondo un vero e proprio regime di stampo nazista, basato sulla purezza della razza (i maghi sono la razza eletta) e sulla manipolazione delle coscienze; i tre eroi, dunque, oltre alla difficoltà del compito sperimentano anche quella del muoversi in un ambiente sempre ostile e pericoloso. Dopo diverse peripezie i protagonisti torneranno ad Hogwarts, la scuola dei maghi dove si svolge la maggior parte della saga. Lì avverrà la battaglia finale fra le forze del bene e quelle del male (bellissime le scene con le statue di pietra che prendono vita per salvare la scuola e lottano contro giganteschi troll di montagna). Lì verranno chiusi tutti i conti e Harry affronterà Voldemort in un duello al quale solo uno dei due potrà sopravvivere.

la rabbia e l'orgoglio?

E' veramente complicato ridurre una cosmogonia di migliaia di pagine in poche parole, ma lo è altrettanto il farlo per immagini. Il film sceglie dunque di operare alcuni tagli e semplificazioni, restando però piuttosto fedele al testo originale, nella lettera e - soprattutto - nello spirito. Alla fine la figura più difficile è quella di Harry, il cui problematico mondo interiore viene minuziosamente scandagliato nei libri e lasciato invece abbondantemente all'intuizione dello spettatore nel film. Il risultato è un personaggio un po' isterico e a volte sinceramente antipatico. Anche il rapporto amoroso con Ginny Weasley (Bonnie Wright) viene quasi completamente ignorato.
La scenografia è, come da tradizione, basata su elementi gotici e vittoriani nel mondo dei maghi e contemporanei in quello dei "babbani". Qualche dettaglio in più all'interno di Hogwarts (ci pare di ricordare che le fantasmagoriche scale in movimento siano state realizzate solo nel primo capitolo) avrebbe potuto donare un appropriato senso di sorpresa di fronte alla magia.
I costumi non sono particolarmente interessanti, ci è sempre parsa una occasione persa quella di scegliere di non rappresentare i maghi con vestiti eccentrici, che avrebbero dato un tocco in più di humour, oltre che sottolineare la differenza di approccio a cosa è importante rispetto ai "babbani".
Fra gli interpreti, menzione d'onore ad Alan Rickman per un Severus Piton ambiguo fino alla fine, caratterizzato da un'aspetto simile in modo inquietante (per la gioia degli spettatori italiani) ad un Renato Zero in salsa celtica.
Fra le scene degne di nota, quella all'interno della banca Gringott, che ad alcuni è parsa una citazione di "Mary Poppins" e quella della battaglia di Hogwarts, comprensibilmente accostata ad alcune scene del "Signore degli anelli". A noi invece il duello tra Harry e Voldemort ha ricordato quello tra Luke Skywalker e l'imperatore di "Guerre stellari", ma senza l'aspetto seduttivo del "lato oscuro" che a Voldemort manca completamente, preso com'è dalla propria furia omicida.

Neville, si può essere eroi anche in cardigan

Un aspetto che abbiamo sempre considerato interessante è come in Harry Potter i ragazzi siano veri protagonisti, fautori del proprio destino, gli adulti sono lì per guidare, aiutare, a volte ingannare, mai sostituire i giovani. Mano a mano che da ragazzi si fanno adulti vengono chiamati a fare delle scelte ed a sopportarne le conseguenze. Emblematica la figura di Neville Paciok, giovane mago pasticcione spesso deriso sia dai compagni che dagli avversari, che posto di fronte alla difficile scelta fra il bene ed il male (non è filosofia, la scelta implica la vita o la morte immediata) butta il cuore oltre l'ostacolo - unico fra tutti - e sceglie il bene "a prescindere", sfidando il trionfante Voldemort in modo - in apparenza - insensato.

It's over!

E' spesso un mondo senza pietà quello di JK Rowling, in cui i buoni muoiono come e più dei cattivi, e nemmeno all'adolescenza è concessa un po' di irresponsabilità. Ma non è forse uno specchio fedele del mondo reale, anche se non è piacevole ammetterlo?
Hary Potter  è nato, e rimane, un racconto per ragazzi e di ragazzi, in cui il "restare giovani dentro" fa la differenza e cosa più dell'amore ci fa restare giovani? Harry da bambino viene salvato dall'amore di sua madre, più forte della peggiore magia oscura, una volta cresciuto combatte a ben vedere usando lo stesso - invincibile - incanto, che voi-sapete-chi non potrà mai comprendere: la gratuità dell'amore che non si mette al primo posto.
Ricorrendo a questa magia, che anche a noi babbani è concesso sperimentare in mille forme ogni giorno, qualunque cosa succeda...la fine potrebbe mai essere una brutta fine?

a kiss before dying?

mercoledì 8 giugno 2011

The tree of life - the answer is blowing in the wind


Ispirati ed incuriositi dalla vittoria al festival di Cannes, non potevamo perderci l'occasione di vedere per voi The tree of life, ultima opera di Terrence Malick (La rabbia giovane, I giorni del cielo, La sottile linea rossa, Il nuovo mondo), stravagante autore texano da sempre in odore di genialità. Il problema con questo tipo di film è che viene preceduto dalla propria fama rendendo assai difficoltoso evitare il pre-giudizio. Sgombriamo subito il campo dai possibili malintesi: Malick sta al cinema circa allo stesso modo in cui James Joyce sta alla letteratura: per apprezzarlo è rilevante lo stato d'animo del momento, non va scelto se avete in mente una serata memorabile in compagnia di un partner che ama i film d'azione o le commedie romantiche!
Se invece, come Malick, avete sempre avuto interesse per le domande fondamentali, allora sì, mollate tutto e dirigetevi al cinema più vicino, qui c'è pane per i vostri denti!
A dispetto delle domande "importanti", il film non si nasconde dietro grandi metafore, nulla viene omesso, nulla resta non detto, il che implica una durata di quasi due ore e mezza, che passano senza eccessiva difficoltà.


Non si può parlare di trama in senso stretto, diciamo che il film accosta un piano universale ad uno personale, simbolizzato dalla vicenda di Jack (interpretato da adulto da un mito vivente, Sean Penn, da ragazzo dal giovane e talentuoso HunterMcCracken), che vediamo crescere in una tipica famiglia americana degli anni 50 in cui il principio maschile è rappresentato attraverso un padre autoritario (Brad Pitt, estremamente convincente) e quello femminile da una madre amorevole (Jessica Chastain, in stato di grazia; la attendiamo nel prossimo Coriolano di Ralph Fiennes).
Spesso al posto del dialogo vengono riportati i pensieri dei personaggi, come un semplice sussurro fuori campo.
Vediamo Jack, ed i suoi genitori, sperimentare gioe e dolori: la nascita dei figli, la lacerante perdita di uno di essi, fortune e miserie lavorative, l'intimità, l'incomprensione che porterà Jack ed il padre ad allontanarsi, pur consapevoli di essere l'uno lo specchio dell'altro. Ritroviamo Jack affermato professionista in una moderna metropoli, alle prese con le domande fondamentali: CHI? PERCHE'? COSA DEVO FARE?
Il montaggio - estremamente complicato - destruttura la trama in frames scollegati dall' asse temporale. Alla vicenda umana si giustappone quella universale, un discorso che Malick riprende veramente dall'inizio, dal big bang fino alla nascita del mondo e delle ere. Questa parte del film si compone di immagini struggenti che non solo a noi - a quanto si legge nelle critiche - hanno ricordato Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio. La lunghezza, e in qualche modo la prolissità di questa parte del film, hanno suscitato polemiche rispetto alla loro reale necessità. A nostro parere, pur essendo la sintesi un dono, senza questa lunga parentesi il film non sarebbe la stessa cosa, sprofondatevi nella poltrona e godetevi semplicemente la bellezza delle immagini; condensare la storia della vita in alcune decine di minuti denota concisione!


Un plauso a Emmanuel Lubezki  (messicano, a dispetto del nome - una filmografia troppo lunga per poter essere citata), magistrale direttore della fotografia. Ci è piaciuta moltissimo la luce con cui riprende la famiglia di Jack.
Bellissimi i costumi di Jaqueline West, perfettamente calata nell'atmosfera anni 50.


In conclusione il filosofo Malick realizza un film complesso per giungere a conclusioni semplici: ogni minuto non speso con amore è un minuto perso. Come scoprirà il padre di Jack, siamo troppo piccoli per illuderci di contare qualcosa in questo universo. Però - come ruiscirà a Jack adulto - possiamo cogliere, magari nel volo di uno stormo di uccelli fra assurdi grattacieli, in un albero verde piantato nel cemento, in un filo di vento, LA risposta che Malick ci esplicita nell'ultima immagine: un ponte lanciato verso l'orizzonte.

giovedì 21 aprile 2011

The next three days


Immagina di fare colazione con la tua famiglia, improvvisamente due forti colpi alla porta: la polizia entra e fra le lacrime di tuo figlio arresta tua moglie (Elizabeth Banks, Shaft, tutti e tre gli ultimi Spider-Man, ma anche una intera annata di Scrubs in TV). Due anni dopo lei è stata definitivamente condannata . E' praticamente certo che passerà i prossimi trenta anni in carcere.
Tu cosa faresti?
Nell'improbabile ipotesi che fra i nostri lettori ci sia Russell Crowe la risposta sarebbe: qualsasi cosa!

Mike Haggis è un curioso caso di regista e sceneggiatore che si divide fra cinema e TV. Autore di  Crash - Contatto fisico e Nella valle di Elah, ha collaborato spesso con Eastwood ma ha anche scritto gli ultimi due 007. Una curiosità: se vi foste chiesti chi ha scritto le sceneggiature di  Walker Texas Ranger ebbene sì è lui ed è pure inglese! 
The Next three days pone una questione: quanto siamo disposti a spingerci oltre i limiti per realizzare ciò in cui crediamo, cosa accettiamo di lasciare indietro per raggiungere ciò che davvero conta? Tuttavia  ci pare che al regista interessi più porre la domanda che trovare una risposta. Questa si perderebbe comunque nel clamore di ruote che stridono e spari che rimbombano.

Russell Crowe interpeta il mite professore John Brennan, la cui ordinaria vita quotidiana viene sconvolta da una kafkiana irruzione dell'assurdo, sotto forma di arresto della moglie Lara per l'omicidio della propria superiore sul lavoro.
John non può credere che la moglie sia veramente colpevole, così quando è acclarata la condanna giudiziaria, escogita un piano per farla evadere e fuggire con lei. Nella fase preparazione John si scontrerà piuttosto dolorosamente  con le difficoltà  di compiere un atto illegale da parte di un ingenuo neofita del crimine. A tempo debito però John avrà reperito le risorse finanziarie, pianificato la fuga e rapito la incredula moglie dopo averla fatta trasportare fuori dal carcere con un inganno.
Riuscirà John da mite professore a trasformarsi in smaliziato criminale raggiungendo una rinnovata libertà con moglie e figlio? Ogni piano perfetto si scontra con l'imprevedibile, la sfortuna...vale davvero la pena di provarci?
Per sapere come finisce dovrete andare a scoprirlo al cinema, quello che è sicuro è che per John ne vale la pena. La sceneggiatura infatti si premura di chiarire che per il protagonista non è più tanto importante se la moglie è davvero colpevole oppure no; lui decide che non lo è, non lo può essere, e si comporta di conseguenza: di fronte a un sistema giudiziario che fallisce, il tentativo di ristabilimento della giustizia da parte di John passerà per diversi reati, fino a giungere - in modo che abbiamo trovato addirittura ironico - all'omicidio: Lara forse è innocente, John invece colpevole lo è di sicuro, ma allo spettatore ormai non importa più. Lara, fra l'altro, è un personaggio ambiguo, solo nelle ultime sequenze si scoprirà la verità su di lei, ma nel corso del film non ci sono appigli per anticipare la soluzione. Anche lo spettatore, come John, deve decidere in cosa credere.

Il film dopo una partenza fulminante tende a incepparsi nella fase di preparazione della fuga, per poi riprendersi (per fortuna!) nell'azione mozzafiato della fuga e dell'inseguimento.
Probabilmente qualche minuto in meno nella parte centrale della pellicola non avrebbe nuociuto alla scorrevolezza dell'insieme.

Il cast è straordinario e racchiude star del cinema e della TV.  Olivia Wilde (una bellezza moderna vista in The O.C. e Dr. House in TV), Liam Neeson, appena un cameo, come anche RZA (celebre rapper che ricordiamo per un cameo e la bella colonna sonora in Ghost Dog di Jarmusch), infine un commovente Brian Dennehy padre di John che intuisce le intenzioni del figlio ma non tenta di fermarlo, condividendone le motivazioni. Con questi attori ci sarebbe piaciuto vedere sviluppati meglio i personaggi di contorno.

Un dettaglio un po' inquitante sui tempi che viviamo: John impara molte cose, ad esempio fabbricare passepartout universali e scassinare le serrature delle automobili attraverso accurati tutorials su youtbe. Dopo "Clio Makeup" arriveremo a "Jake Breakup"?

Personalmente abbiamo già avuto modo (qui) di dichiarare la nostra ammirazione per Crowe, che sa con la forza delle emozioni rendere credibile l'inverosimile. Questa pellicola non resterà fra le sue più memorabili, ma noi lo seguiremo sempre con partecipazione nei bassifondi di Pittsburgh (brutta città, a giudicare da come è ripresa) per coprirgli le spalle da falsari infidi e spacciatori violenti. A quanto sembra, però, sa cavarsela alla grande anche da solo!

venerdì 18 marzo 2011

Il Cigno Nero

Natalie Portman versione "Cigno Bianco"

Dopo un'attesa di alcuni mesi, dopo l'anteprima al festival di Venezia finalmente abbiamo la possibilità di vedere Il Cigno Nero di Darren Aronofsky (The Wrestler, Requiem for a dream).
A fronte di una trama quasi inesistente, la pellicola è piuttosto complessa e inquietante.
La storia racconta del corpo di ballo di un teatro che allestisce una versione del Lago dei cigni di Tchaikovsky (o comunque si scriva). La regia prevede che una sola ballerina interpreti Odette, il cigno bianco e Odile, il cigno nero. Thomas Leroy, il direttore della compagnia (un Vincent Cassel molto convincente), per attirare l'attenzione del pubblico decide di rimpiazzare la prima ballerina (Winona Ryder, poco più di un cameo), giunta ormai al termine della carriera, e di lanciare una nuova star. La scelta cade, nonostante diversi dubbi, su Nina (una Natalie Portman premiata con l'Oscar per questo ruolo), giovane ballerina ossessionata dalla perfezione tecnica e vessata da una madre soffocante (Barbara Hershey, una lunga e interessante carriera, oscar come non protagonista per Ritratto di signora di Jane Campion).
La fragile Nina è in grado di interpretare senza problemi il ruolo del cigno bianco, ma manca della sensualità seducente e malvagia che si addice al cigno nero. Thomas la spinge quindi a ricercare il lato oscuro ed erotico di sè.
Il già precario equilibrio emotivo di Nina viene inoltre messo alla prova dall'arrivo di Lily (Mila Kunis, una carriera finora prevalentemente in TV), ballerina seducente e sensuale. Nina inizia un difficile percorso alla scoperta del cigno nero che è in lei arrivando, ahilei, a confondere realtà e immaginazione. Giungerà alla sera della prima ormai profondamente sconvolta: nella vita come nella rappresentazione, il trionfo del cigno nero comporta la sconfitta del cigno bianco.

La fragilità fisica di Natalie Portman, ulteriormente dimagrita per rendere al meglio il ruolo, è perfetta nella resa della psicologia del personaggio. Le scenografie non sono particolarmente degne di nota (quasi tutto il film si svolge nelle sale prova del teatro) ma la casa dove la madre tiene Nina quasi reclusa è magistrale: tappezzerie rosa con i cuoricini, pupazzi di peluche e carillon con la ballerina che gira sulla musica sono fotografati con una luce livida, inquietante.
I costumi non si segnalano per originalità, belli però gli abiti di scena (molto bella la scena in cui la protagonista si trasforma nel cigno nero). Unico capo degno di nota, il cappottino in perfetto stile Hepburn di Nina.

Un dramma psicologico, dunque, che a tratti sconfina nell'horror, anche piuttosto sanguinolento: le ossa scricchiolano, le dita si piegano in modo innaturale, la pelle si strappa e spacca. Non è solo l'anima di Nina che soffre, il corpo ne costituisce uno specchio perfetto.

Aronofsky ritorna sul tema del corpo, già esplorato in The Wrestler, ma anche nel meno famoso Requiem for a dream. Se in quest'ultimo il corpo era martoriato dalla dipendenza dalle droghe, e in The Wrestler dall'uso, per così dire, meramente strumentale che il protagonista ne faceva, ci pare che qui il discorso sia ancor più tristemente moderno. Se il wrestler si lanciava (a rischio di morirne) nella luce dei riflettori pur di non rinnegare se stesso, Nina invece, è ossessionata dalla perfezione, o meglio da un'idea di perfezione che si è formata in lei, forse anche a seguito delle aspettative di una madre frustrata nelle proprie aspirazioni. A nulla vale che lo stesso Thomas le ricordi che per il pubblico (il "resto del mondo") la perfezione non è nulla senza l'emozione. Nina insegue il proprio ideale scollegandosi sempre più dal mondo reale, infliggendosi ferite fino alle estreme conseguenze. Una parabola dell'anoressia? Forse inconsapevole, ma ci pare una lettura che vale la pena proporre.

Nei personaggi, a parte Thomas, non si ravvisa alcuna forma di passione per ciò che fanno, nè di piacere nel farlo. Per Nina danzare sembra addirittura un dovere, una via per il successo e l'emancipazione.
Anche in questo il discorso ci pare tristemente attuale.
Un film così non lascia lo spettatore indifferente, o se ne esce entusiasti o si va via prima della fine. Noi (l'abbiamo visto tutto) confessiamo di non avere la presunzione di avere capito: ne siamo usciti inquietati ma con numerosi temi su cui riflettere. Non è poco: cos'altro si può chiedere a un film drammatico?


Natalie Portman in versione "Cigno Nero"

giovedì 10 febbraio 2011

Il discorso del re - The king's speech


E’ un Albert-Giorgio VI piuttosto preoccupato quello che si accinge a pronunciare un discorso davanti al microfono che, dallo stadio gremito di gente dove si trova, trasporterà la sua voce in tutto il regno attraverso la radio. E come scopriamo subito, ha i suoi buoni motivi visto che è affetto da balbuzie fin dalla più tenera infanzia. Il discorso si risolve in un disastro, ma Albert affronta l’umiliazione con dignità davvero regale. Si vedrà nel prosieguo che ha la grande dote di essere uomo di fegato.

Il film di Tom Hooper (Il maledetto united, Red dust con Hilary Swank) che si avvia a far man bassa di premi ai prossimi Oscar, pur non essendo un capolavoro dal punto di vista artistico, ha il pregio di piacere a tutti senza essere banale, il che non ci sembra poco.
In alcune sale la pellicola è proiettata in versione originale sottotitolata, per coloro che conoscono l'inglese ci sentiamo di consigliarla.

La trama segue le vicissitudini di Albert di York, figlio cadetto di re Giorgio V, alle prese con le difficoltà nel sostenere un ruolo pubblico al confronto con un genitore energico ed un fratello (David-Edoardo VIII) brillante. Per ovviare al difetto di pronuncia, giudicato limitante a fronte dell’avvento della comunicazione di massa, si sottopone a estenuanti quanto ridicole cure presso i migliori specialisti. Quando ormai sembra aver perso ogni speranza, la devota moglie Elizabeth – la futura popolarissima Regina Madre – scova un eccentrico logopedista australiano, Lionel Logue, a fianco del quale Albert inizierà un percorso di cura che porterà alla radice del problema, cioè l’aspetto psicologico. Alla morte di Giorgio V , David-Edoardo VIII ascende  al trono ma vi rinuncia dopo pochi mesi per convolare a nozze con Wallis Simpson, americana anticonformista (a essere gentili) e pluridivorziata.
Albert, suo malgrado, si trova a regnare in tempi particolarmente duri. Dovrà pronunciare un difficile discorso radiofonico in occasione dell’entrata in guerra del Regno Unito contro la Germania di Hitler.  A dispetto delle differenze di classe, delle incomprensioni personali e delle resistenze della corte, Lionel e Albert, due amici, due persone, uniranno gli sforzi nel tentativo di consentire al re, con il proprio discorso, di trasmettere fiducia e coraggio alla nazione intera.
La storia ci dice che i due rimasero amici per tutta la vita.

Dal punto di vista tecnico il film è interessante, senza strafare. Le scenografie sono efficaci, sia nel lusso senza eccessivo sfarzo dei palazzi reali, sia nello spoglio studio di Logue. I costumi maschili sono di grande eleganza, quelli femminili, a nostro giudizio, peccano di eccessivo understatement. Le inquadrature durante i discorsi pubblici di Albert si fanno avvolgenti e deformano il pubblico in modo ansiogeno per rappresentare le paure di Albert.

Fra gli interpreti segnaliamo un Colin Firth magistrale nell'interpretazione di Giorgio VI; Geoffrey Rush nel ruolo di Lionel Logue non cede alla tentazione di caricare il lato dissacratorio del proprio personaggio mentre Elena Bonham Carter, dopo gli ultimi film di Tim Burton e la saga di Harry Potter, ha finalmente a disposizione un ruolo - Elizabeth di York -che le rende giustizia e non si lascia scappare l’occasione per regalarci un’ottima interpretazione! Infine Guy Pearce regala la propria faccia da… impunito a un convincente Edoardo VIII.

Il film, come già visto in Invictus di Clint Eastwood, analizza un preciso episodio della vita di un personaggio storico. Ci troviamo forse all’inizio di un filone di cinema “agiografico”? Lo sapremo nei prossimi anni.
Quello che colpisce nella pellicola di Hooper è la serietà dei personaggi. Sono però seri, non seriosi. Ciascuno (eccetto Edoardo VIII che sceglie di privilegiare la vita privata) è cosciente del proprio ruolo e non si concede personalismi. Albert Giorgio VI è un leader “vulnerabile”, ha piena coscienza dei propri limiti, nutre dubbi sulle proprie capacità e tuttavia non rinuncia a lottare nonostante le ripetute umiliazioni. Non è facile per nessuno essere all’altezza del proprio ruolo, non è facile essere un leader; ma anche se la vita non va come previsto, l’unico modo per farcela è mettersi costantemente in gioco, senza indulgere all’autocommiserazione. Una “regale” lezione, tanto più convincente, visto che la storia è vera!

Secondo Sabatini-Colletti la definizione di Maestoso è “Che manifesta o denota maestà; che suscita ammirazione e rispetto”. Sia per la regia che per screenplay, interpretazione e - soprattutto - personaggi, quale aggettivo migliore di questo? 

mercoledì 7 luglio 2010

Valentino - la solitudine dei numeri uno


Quale occasione migliore per Torino Style di unire la passione per la moda e quella per il cinema e vedere per voi il DVD di "Valentino - the last emperor"? La pellicola segue l'ultimo periodo della carriera del grande couturier, in particolare la sfilata parigina del 2007 e la celebrazione romana per i 45 anni di carriera; tecnicamente si tratta di un documentario, girato in presa diretta sui luoghi di lavoro, ed ha il grande pregio di consentirci uno sguardo all'interno del mondo un po' magico ed un po' misterioso dell'alta moda.
Il film è realizzato dal cineasta americano Matt Tyrnauer (bravo ed equilibrato). La domanda ci sorge spontanea: un progetto come questo viene realizzato da un americano perché la lontananza culturale gli consente uno sguardo privo di pregiudizio o perché in Italia nessuno è in grado di farlo? Attendiamo con  curiosità qualche commento in merito.

Il film centra l'attenzione sul sodalizio fra Valentino e Giancarlo Giammetti, rispettivamente la geniale anima creativa e la brillante mente organizzativa che hanno dato una grande contributo alla creazione del mito del made in Italy, infondendo vita e vigore ad una delle principali fashion companies a livello mondiale.
Una riflessione importante che il film propone è quella sul legame fra finanza e moda, precisamente su come il mondo della moda si vada trasformando sempre più in un mercato, comprimendo parzialmente la libertà creativa degli stilisti. Se la domanda di fondo è "oggi per un giovane stilista sarebbe ancora possibile diventare Valentino?", ebbene la risposta, purtroppo, pare scritta negli indici di bilancio più che nelle matite dei designers.

Nelle prime sequenze Valentino dichiara di essere stato inizialmente ispirato dal cinema, dai meravigliosi costumi delle dive del silver screen, e a noi pare che di questa ispirazione abbia fatto tesoro per una vita che sembra davvero un film: dalle prime esperienze parigine, agli incontri fondamentali, alla costruzione di un successo mondiale partendo sostanzialmente da zero e attraversando con la stessa eleganza le diverse epoche dagli anni '60 in poi.
Il film non manca di momenti ironici o buffi, che a nostro avviso alleggeriscono un po' l'insieme e non scalfiscono di una virgola nè l'uomo nè il mito che ha saputo creare.

Le sarte fanno tutto a mano (come Giammetti orgogliosamente rivendica), le mannequin paiono davvero più "strumenti di lavoro" che bellissime donne da ammirare, lo stile di Matteo Marzotto è da manuale, ma purtroppo nessun libro può insegnare la sua innata eleganza. Alle sfilate presenziano miriadi di attori hollywoodiani, ma in questo film sono solo comparse!
Momenti da ricordare: la geniale inquadratura dei carlini messi in fila sul sedile dell'aereo all'inizio del film, la scena della consegna della Legion d'Onore con i ringraziamenti sinceramente commossi a Giammetti, la camera che coglie il cambio d'espressione delle modelle, da trafelato nel backstage ad altero sul catwalk; infine Valentino e Karl Lagerfeld, mentre ammirano i vestiti appesi all'Ara Pacis, sembrano due generali avversari che si incontrano dopo anni di battaglie e non hanno bisogno di parole per capirsi. 

L'atmosfera del film, uscito nel 2009, è un po' da fine di un'epoca e forse è proprio così, oggi si ama forse più la moda dell'eleganza e la trasgressione più della professionalità. 
Valentino, per quanto ammirato, non pare compreso fino in fondo quasi da nessuno, come se il suo inarrivabile talento lo rendesse in qualche modo straniero. E' forse parte del destino dei numeri uno scalare la montagna fino alla vetta e scoprire che non v'è posto per nessun altro?

mercoledì 16 giugno 2010

Il Concerto, o della ricerca del bello


Esce il 16 giugno in DVD Il concerto, pregevole opera di Radu Mihaileanu, di cui si ricorda il commovente Train de vie. Si tratta di una favola, il cui prezioso messaggio è nascosto ora dal registro grottesco, ora da una pungente ironia. 
La trama segue le vicende di un direttore d'orchestra, caduto in disgrazia ai tempi di Breznev, nella realizzazione (improbabile) di un sogno interrotto trenta anni prima dall'idiozia totalitarista. Andreï Filipov, rimosso dal suo incarico di direttore dell'orchestra del Bolschoi, è ormai ridotto a fare le pulizie nel teatro che lo vide trionfatore e i membri della sua orchestra conducono da trenta anni vite altrettanto umilianti. L'occasione è quella di sostituirsi all'orchestra del Bolschoi per un concerto a Parigi. Andreï, come in tutte le fiabe che si rispettino, dovrà superare alcune prove, ritrovare i musicisti, organizzare il viaggio e riuscire a suonare a Parigi senza aver provato un solo minuto. Eppure l'improbabile orchestra è unita da un filo invisibile, il portare a termine un concerto interrotto trenta anni prima, così come invisibile è il filo che lega la solista Anne-Marie Jacquet al destino di questo stesso concerto. E' un segreto e nobile compito di dignità e di umana pietà, quello che si danno i nostri musicisti; a ben vedere ciò che li muove non è la ricerca di una rivincita ma la ripresa di un discorso interrotto. Ogni orchestrale può dare il proprio contributo, la vita li ha resi brutti, meschini, egoisti, ubriaconi: tutti saranno redenti perchè uniti - nonostante tutto - dalla ricerca del bello, dell'assoluto. Non è questione di tecnica, ma di cuore, ed è grazie a questo che Andreï riuscirà nella sua personale catarsi e Anne-Marie, attraverso la musica, troverà una nuova consapevolezza di sè. 
Il film è anche l'occasione per una feroce critica alla miopia dei totalitarismi; raramente abbiamo assistito ad un affondo così penetrante nei confronti del regime sovietico, oggi rappresentato in modo quasi gattopardesco dai magnati del gas. Mihaileanu sembra dirci che nessuna epoca può dirsi realmente al sicuro: i nemici dell'arte e del bello si nascondevano ieri in un regime stolido, oggi li ritroviamo nelle pacchianate da miliardari senza cultura.

Gli interpreti:
Mélanie Laurent: l'abbiamo già apprezzata in Bastardi senza gloria di Tarantino ed ha veramente i numeri. E' una perfetta Anne-Marie Jacquet, di cui rende con sincerità la spocchia "parigina" prima ed il sentimento di solitudine e fragilità dell'orfana poi
Aleksei Guskov: è un magnifico protagonista. Dignitoso ed elegante quasi malgré soi, interpreta con classe un uomo che pare sconfitto dalla vita, ma che in realtà non riesce a rinunciare al valore assoluto. 
Citazione d'obbligo per Miou-Miouun pezzo di storia del cinema francese: interpreta la madre putativa di Anne-Marie ed è semplicemente monumentale, soprattutto nella misura. I veri grandi non strafanno!

Un film come questo non si giudica dai costumi, tuttavia segnaliamo la elegantissima mise di Mélanie Laurent nella scena della cena, ed il vestito bianco che indossa al concerto.
Bellissimo l'arredamento della casa della violinista, una vera maison d'artista!
In mezzo a un film che non rinuncia a prendere in giro perfino sè stesso (i personaggi parlano con un accento russo a dir poco fumettistico), Mihaileanu ci regala due scene di grande cinema: la cena in cui Andreï non riesce a comunicare la verità ad Anne-Marie e quando Sacha, il violoncellista, chiede alla stessa Anne-Marie di non rinunciare al concerto in nome di un valore: la bellezza.

Pietà, dignità, bellezza. Non sono parole di cui capita di scrivere spesso, eppure il film ci dà speranza: chissà che di qui a trenta anni qualcuno non riesca nuovamente ad allestire un concerto per ridare giustizia a valori che a volte covano sotto la cenere, ma non si spengono! 

venerdì 28 maggio 2010

Robin Hood, la recensione


In tempi di crisi e scandali finanziari internazionali, quale storia è più attuale se non quella di Robin Hood? Ridley Scott ancora una volta si conferma fortunato, oltre che bravo, ed esce con il film giusto al momento giusto. 
Necessaria premessa: non si tratta di un film storico. Rispetto a precedenti versioni i fatti sono calati in un contesto storico realistico anche se non reale e i personaggi sono ispirati ai veri protagonisti di quel periodo; tuttavia, un film non è un libro e si prende ampie licenze "artistiche" inventando di sana pianta, ad esempio le circostanze della morte di Riccardo Cuor di Leone o  la genesi della Magna Charta, in modo però funzionale al discorso che Scott intende portare avanti. 
Il film narra di Robin Hood prima che diventasse mito, un'operazione già tentata con successo da Christopher Nolan con Batman Begins. La trama si tiene comunque sulla falsariga della tradizione, con qualche variante. Robin Hood è un soldato che di rientro dalle crociate si trova ad impersonare un nobile inglese. Le circostanze lo porteranno ad assumerne completamente l'identità completando un percorso personale attraverso cui ritroverà le proprie radici, scoprirà una nuova coscienza civile e farà innamorare lady Marian. Game, Set and Match!
Belle e ben sceneggiate le scene di guerra e di lotta. Bella l'immagine della nave che risale a remi il Tamigi. Le scialuppe da sbarco dei francesi, in stile Normandia 1944 ma a remi: semplicemente buffe; non possiamo che augurarci che siano state messe lì strizzando un occhio al soldato Ryan!

Il cast: un vero parterre de roi con molti britannici.
Russel Crowe, piuttosto in forma giunto ai 46 anni, è ormai  presenza fissa nei film di Scott. E' un Robin Hood muscolare ma credibile. Ci piace (fin dai tempi di LA Confidential) per come sa usare un fisico possente solo quando serve, mettendosi al servizio dell'interpretazione e non viceversa.
Cate Blanchett, è una scelta piuttosto azzeccata. Riesce ad essere elegante anche lavorando nei campi, coniuga alterigia nobiliare e passione civile. Una bionda qualsiasi sarebbe stata fuori luogo.
William Hurt è la vera sorpresa del film, e non parliamo solo dell'abbondante dose di botulino con cui si è spianato il viso! Interpreta con rara maestria un Guglielmo di Longchamp (personaggio storico) vero deus ex machina della corte inglese. Ci mancava e l'abbiamo ritrovato!
Max Von Sydow: Interpreta il vecchio padre cieco di Locksley e diviene padre spirituale di Robin Hood. Torreggia da par suo senza gigioneggiare eccessivamente. 
Mark Strong: il personaggio (Godfrey, il super cattivo del film) è banale, ma merita un citazione per il make up per la cicatrice stile Capitan Harlock su un lato della bocca causata da una freccia di Robin. 
Danny Huston (figlio del grande John Huston): fa un Riccardo Cuor di Leone romantico e diverso dal solito: come un soldato stanco ma consapevole di non poter fare altro che continuare sulla via che ha scelto fino alle estreme conseguenze.
Oscar Isaac nel ruolo di Giovanni Senza Terra (incomprensibilmente il fratello è biondo-rossiccio - come nella realtà era - lui invece sembra il fratello del Saladino, carnagione olivastra e una barbetta che sarebbe ridicola anche sulla faccia di un tronista). E' un personaggio sfortunato perchè pare che debba essere rappresentato comunque come un idiota. Qua e là vediamo invece  barlumi di una interpretazione originale. Lo aspettiamo a una prossima prova!
I costumi non sono particolarmente belli ma abbastanza fedeli al periodo, Robin indossa pantaloni di pelle un po' punk, Marian veramente troppo scollata per quel periodo storico. Da notare il numero di anelli alle dita di re Giovanni e della principessa Isabella. Gli abiti regali però li avremmo voluti più in evidenza.

Last but not least il regista: Ridley Scott è forse l'autore in attività che può vantare il maggior numero di film che hanno fatto epoca (I duellanti, Alien, Blade Runner, Thelma & Louise, Il Gladiatore e qui mi fermo per ragioni di spazio); purtroppo questo non è uno di quelli, ma resta un prodotto di rara qualità. Ce ne fossero!

venerdì 26 marzo 2010

Alice: solo chi è pazzo cambia il mondo



Lo confessiamo: siamo fan della prima ora di Tim Burton. Abbiamo amato Edward mani di forbice, riso con Mars Attacks!, ci siamo spaventati con Sleepy Hollow e con Sweeney Todd, commossi con Nightmare before Christmas e la Sposa cadavere e - dulcis in fundo -meravigliati con La fabbrica del cioccolato. Tuttavia ogni film è un nuovo esame, ed è con sottile inquietudine, anzi, con una punta di pregiudizio, che siamo andati a vedere l'ultima fatica dell'autore americano: Alice in wonderland, per l'occasione in versione 3D.
La trama segue le avventure di Alice in un mondo al tempo stesso poetico e allucinato caratterizzato dall'inquietante estetica gothic tipica di Tim Burton.
Uno dei temi ricorrenti nei suoi film è quello della ricerca/accettazione di sè in contrapposizione alla dilagante omologazione della massa. In questo il film è una conferma: Alice, soffocata dai conformismi della società, trova la propria identità attraverso un percorso personale originale e rientra nella stessa società, non più come pedina inconsapevole, ma come individuo attivo e propositivo. La trasformazione (il passaggio dall'adolescenza all'età adulta), è ben sottolineata dai costumi: Alice cambia d'abito ogni volta che le succede qualcosa, quindi spesso. Lo stile, sembra dirci Burton, non è la pedissequa applicazione della moda ma l'interpretazione che ognuno di noi ne fa.
Ci hanno deluso alcune inaspettate cadute di stile, come Alice che al rientro nel mondo di sopra fa la morale a tutti i presenti e si esibisce in una ridicola "deliranza" ma, al di là delle scene più o meno riuscite, a noi di Torino Style è parso che per decollare davvero al film manchi quel briciolo di follia in più che l'avrebbe veramente reso "migliore". 


Per quanto riguarda i costumi: belli quelli vittoriani del party "matrimoniale"; la corte della regina rossa veste in stile '400 (curatissimi i personaggi di corte), quella della regina bianca è del '600. Il cappellaio matto sembra vestito dall'esercito della salvezza; Alice, oltre alle proprie dimensioni fisiche, cambia in continuazione vestiti e scarpe, tutti belli.  
Sia ai costumi che alle scenografie, rispetto alle capacità visionarie dimostrate nei film precedenti, manca quel non so che che in occasioni precedenti ci ha strappato un "ooooh" di ammirazione.


Sugli attori, tranne i personaggi umani, tutti pesantemente truccati o realizzati direttamente in grafica:
Johnny Depp: un'occasione persa, troppo truccato (molto più che nella chocolate factory), il personaggio non è particolarmente sviluppato dalla sceneggiatura. Non giudicabile.
Helena Bonham Carter: difficile ricordare l'ultima volta che NON ha interpretato una pazza psicopatica nascosta sotto mezzo quintale di make up. Non sarebbe ora di aprirle la gabbia?
Anne Hathaway: con occhi e bocca smisurati (di natura) non stupisce che abbia colpito l'immaginario di Burton. Per noi, le manca un pizzico di autoronia che avrebbe reso la svampita regina bianca un personaggio memorabile; perde l'occasione di rubare la scena a un big come Johnny Depp.
Mia Wasikowska: la good news del film. A 20 anni scarsi riesce a dare credibilità al personaggio, ed è davvero protagonista anche se circondata da mostri sacri dello showbiz. Sarà interessante vedere che film sceglierà in futuro, per il momento... chapeau!


Una nota sul 3D. In questo caso non aggiunge e non toglie nulla all'estetica del film; è infatti poco sviluppato (il film si può praticamente vedere anche senza indossare gli occhiali), pare quasi che perda anch'esso convinzione con il procedere della trama. La lotta con il Ciciarampa avrebbe potuto essere un pezzo di storia del cinema.


Sintesi: film godibile ma non imperdibile, da Tim Burton pretendiamo di più, lo aspettiamo con fiducia alla prossima prova!

venerdì 12 marzo 2010

Invictus: Mud & Glory



Abbiamo visto per voi - con grande piacere peraltro - Invictus, l'ultima fatica di Clint Eastwood. Se Dirty Harry di solito prima sparava e poi chiedeva chi va là, il vecchio Clint (a maggio saranno 80, portati con grande eleganza) si dimostra una volta di più autore di staordinaria sensibilità.

Il film racconta come Nelson Mandela, dopo la fine dell'apartheid ed il suo insediamento come Presidente, utilizzò la Coppa del mondo di rugby del 1995 in Sudafrica come strumento di coesione nazionale. La storia è dunque basata su fatti storici, e questo rende la sua metafora ancora più potente.

Mandela prende per mano al tempo stesso una nazione ed una squadra sfiduciate, insicure dei propri mezzi e riluttanti al cambiamento e indica loro la via per raggiungere un obiettivo (che sarà sì sportivo, ma soprattutto politico) al di là di ogni aspettativa.

Oltre al regista, ispirati anche gli attori protagonisti, Morgan Freeman particolarmente in palla nel ruolo di Mandela (c'è voluto uno straordinario Jeff Bridges per batterlo nella corsa all'Oscar come miglior attore protagonista) e Matt Damon in versione al nandrolone (scherzi a parte cosa gli avranno mai dato per fargli gonfiare così i muscoli?) nel ruolo di François Pienaar, capitano degli Springboks campioni del mondo.

Belli i costumi, con un Mandela sempre impeccabile quando è nel ruolo istituzionale, preferibilmente in completi chiari, nella vita privata invece sfoggia camicie o maglie multicolori. Matt Damon indossa un elegante completo blu solo per il the al palazzo presidenziale, mentre per tutto il resto del film è in abiti sportivi, di solito sporchi di fango, impegnatissimo nel fare la propria parte nella costruzione di una nuova identità nazionale.
"Questa Nazione ha fame di gloria" dice Mandela in una scena del film, e nessuno più di lui, o di un rugbysta, sa che i grandi traguardi si raggiungono sì lottando nel fango, ma a viso aperto, senza rinunciare a comportarsi con stile. I veri uomini - e il film ne abbonda - sono buoni ma non buonisti, sanno soffrire, lottano per le proprie idee e qualche volta cambiano idea! Una lezione, e non solo di cinema. Decisamente consigliato.