Visualizzazione post con etichetta Clint Eastwood. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Clint Eastwood. Mostra tutti i post

lunedì 10 dicembre 2012

Di nuovo in gioco - Blues before sunrise


Dopo aver annunciato il proprio ritiro dalle scene come attore, Clint Eastwood ritorna sui suoi passi in Di nuovo in gioco, pessimo titolo italiano per Trouble with the curve una espressione da baseball intraducibile nella nostra lingua ma che si riferisce a quel punto debole che tutti abbiamo che ci impedisce di essere "campioni".
Prima premessa: si tratta di un film con Clint, non di Eastwood. Il regista è infatti Robert Lorenz, uno dei collaboratori storici di Eastwood, normalmente in veste di produttore. Come disse Francesco De Gregori, tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi.
Seconda premessa: non è un film sul baseball più di quanto Gran Torino lo fosse sul giardinaggio, lo spettatore non si lasci scoraggiare dallo sport più noioso del mondo, è del tutto marginale.
Avvertenza numero tre: sì, sono tutti e due burberi, ma chi vi dice che il personaggio di Eastwood è uguale a quello di Walt in Gran Torino o non ha visto tutti e due i film o è un cretino, tanto per parlar chiaro.


Il film racconta le vicende di Gus Lobel (Eastwood), un talent scout ormai a fine carriera che lavora per una squadra  di baseball professionistico. Dal momento che ha problemi con la vista Pete (John Goodman), dirigente della squadra e vecchio amico di Gus chiede alla figlia di questi, Mickey (Amy Adams, in forma smagliante) di accompagnarlo in North Carolina per valutare l'acquisto di una stella della squadra locale. Mickey sta facendo carriera in un prestigioso studio legale e non vorrebbe partire, ma alla fine cede per avere un'ultima occasione di dialogo col padre, che è di carattere piuttosto burbero. Una volta arrivati in loco  i due incontrano Johnny (Justin Timberlake, sempre più a suo agio sul grande schermo), un ex atleta scoperto da Gus che a seguito di un nfortunio sta tentando di divenire telecronista per la squadra dei Red Sox. In segreto Phillip (Matthew Lillard), un altro dirigente della squadra per cui lavora Gus patito delle statistiche elaborate al computer, invia un suo osservatore.
Fra riavvicinamenti e incomprensioni i personaggi si ritroveranno infine ad Atlanta nello stadio dei Braves (la squadra di Gus) dove tutti i nodi verranno al pettine.


Per chi si aspetta la profondità e la poesia degli ultimi lavori di Eastwood, be' vi state sbagliando! Trouble with the curve è un pranzo in trattoria: piatti tradizionali e nessuna alzata di ingegno, in compenso è realizzato con mestiere e all'uscita dal locale lascia sazi e soddisfatti.
Clint a 82 anni sa benissimo come rappresentare il vecchio orso che perde qualche colpo ma non lo vuole ammettere, prima di tutto con se stesso. Il tema portante del film, tuttavia, è il rapporto padre-figlio e l'avvicendarsi nel grande cerchio della vita, con i figli che, prova e riprova, capiscono finalmente qual'è la propria strada, e la imboccano con decisione: sono padre e figlia Gus e Mickey (grande alchimia fa Eastwood e la Adams), sono padre figlio in qualche modo anche Gus e Johnny (l'uno è creatura dell'altro) sono padre e figlio nella vita Clint Eastwood-Gus e il giocatore con la nostalgia della mamma Scott Eastwood-Billy. La descrizione del rapporto fra padre e figlia, fatto di inevitabili incomprensioni, conflitti di caratteri in realtà simili e ricerca di attenzione ed approvazione da parte del poco comunicativo genitore strapperà qualche lacrima a diverse fanciulle in sala.


I temi trattati dal film sono quelli da sempre cari ad Eastwood: tradizione, famiglia, difficoltà di comunicazione e sospetto per la tecnologia quando si sostituisce all'uomo invece di aiutarlo. L'osservazione, anche con le orecchie se necessario, ma io direi soprattutto col cuore, non può essere sostituita dalla fredda statistica (che fra l'altro è sempre una interpretazione ndr).
Verso il finale il film sbraca un po' troppo nel buonismo da favola moderna, ma nel complesso si tratta di un'ora e cinquanta sì di stereotipi ma piacevoli e rassicuranti, un po' come il blues che ascoltano Mickey e Johnny: si sa già com'è ma in fondo la sua forza è proprio di essere uguale a se stesso ma tutte le volte un po' diverso, e poi...funziona sempre!



2012 - Trouble with the curve (Di nuovo in gioco) 
Regia: Robert Lorenz
Sceneggiatura: Randy Brown
Fotografia: Tom Stern


venerdì 6 aprile 2012

Gran Torino - una buona novella?


La storia è la seguente: c'è un vecchio che si chiama Walt (sì, proprio come Disney!), che non si trova più a suo agio in un mondo che non riconosce più. La moglie è appena mancata, i figli e i nipoti non lo capiscono, non lo hanno mai realmente considerato  un esempio. Aspettano, con malcelata impazienza, che muoia per impossessarsi dell'eredità, rappresentata da una spettacolare Ford Gran Torino
Walt vive circondato da stranieri, i Hmong, un popolo asiatico che ha usanze del tutto diverse dalle sue, che lui inizialmente disprezza considerandole primitive. Però, poco per volta, Walt impara a conoscere meglio i suoi vicini. Al di là dell'apparenza, gli uomini si comportano tutti in modo simile, e l'amore per la tradizione degli Hmong in qualche modo li affratella con il loro scorbutico vicino. 
Ma poichè gli uomoni si assomigliano tutti,  non tutti gli Hmong sono onesti lavoratori: alcuni vivono da gangster, vessando le loro stesse famiglie e tentando di cooptare i giovani instardandoli su un cammino di violenza e sopraffazione. 
Dopo un inizio difficile a causa del giovane Thao, che viene indotto dal cugino malvivente a tentare di rubare la Gran Torino,Walt si affeziona al ragazzo e decide di aiutare i suoi vicini, anche ricorrendo alla forza quando necessario. Ben presto si rend conto che la violenza non ha altro effetto che quello di chiamare altra violenza, e capisce che l'unico modo per interrompere la spirale della spraffazione è quello di fermare i gangster utilizzando sè stesso come sacrificio umano. Walt cade rigido ed a braccia aperte - quasi un crocefisso - in mano l'accendino con il simbolo della sua unità dei marines. In questo modo al popolo Hmong viene assicurata una vita al riparo dalle vessazioni. La divisione dell'eredità di Walt si rivelerà per molti una delusione e per qualcuno una sorpresa da custodire con cura.

La storia sintetizzata in questo modo mi suona piuttosto familiare, e pensandoci su...ebbene sì,  la trama di Gran Torino rappresenta proprio una parafrasi (con svariati gradi di libertà) evangelica: il passaggio dall'antica alla nuova Alleanza. 

Forma e sostanza a confronto

Certo, con quella faccia Clint Eastwood non sarebbe molto credibile nelle vesti di mite evangelizzatore, ma in quelle di iracondo Dio degli eserciti appare ancora piuttosto convincente.
Gli elementi ci sono tutti: un'eredità a cui tutti vogliono partecipare (la Gran Torino), un popolo che rinnega gli insegnamenti del padre (i figli di Walt), un popolo di stranieri che viene chiamato a partecipare all'eredità (Thao e la sua famiglia); il protagonista è un onnipotente soldato che, tuttavia, rinuncia ad usare le armi e mette al riparo dal male la sua nuova famiglia senza ricorrere alla violenza, ma al proprio sacrificio. Il nuovo popolo viene liberato dal suo "peccato originale" e può godersi la Gran Torino su una magnifica strada litoranea, con il sottofondo della voce di Clint che sussurra una struggente canzone.

Walt, in versione signore degli eserciti
Il film "testamento" di Clint Eastwood propone una scomposizione quasi cubista dei piani di lettura: c'è il livello della amara storia personale di Walt, un vecchio incompreso dai figli che decide di rimettersi in gioco e ripartire da zero adottando una famiglia che gli sente più a sua misura di quella "di sangue". C'è anche - accade spesso nei film di Eastwood - una riflessione sui valori fondanti della civiltà occidentale, ormai in via di abbandono. Ad esempio il contrasto fra la produzione - il "fare" - ed il commercio e la finanza che trasferiscono ma non creano ricchezza; c'è il valore dell'educazione attraverso il lavoro ed il sacrificio: Walt insegna a Thao che un uomo deve vivere del proprio onesto lavoro e gliene fornisce i mezzi, sia attraverso i propri contatti che materialmente (gli presta gli attrezzi, che il cugino gangster gli spezzerà).

In molti hanno individuato in Gran Torino un film contro il razzismo, ma a me sembra una lettura al ribasso. Tutto si può dire , meno che questo sia un film "politically correct". Eastwood mi pare seguire un discorso più ampio contro le convenzioni sociali, il consumismo, la superficialità, il guadagno facile. Insomma le ammonizioni che vengono dall'esperienza di tutti i nonni, ma fatte con il linguaggio dell'arte.

E poi c'è la religione. Già si poteva intravedere una bozza del discorso in Million Dollar Baby , ma qui nella persona di Padre Janovich (un convincente Christopher Carley) la religiosità si materializza, parla, non a caso si fa voce narrante. A dispetto di quanto potrebbe appare a prima vista, il rapporto fra il modo di essere "tutta sostanza e niente forma" di Walt ed il punto di vista della religione "ufficiale", necessariamente più diplomatico,  trova infine una sintesi, un ponte che permette ai due uomini di buona volontà di capirsi ed apprezzarsi.

Gran Torino tocca dunque i più grandi temi: religione, valori, razzismo, perchè no anche la globalizzazione; Eastwood riesce a toccare argomenti fondamentali quasi fingendo di parlare d'altro, quasi temesse di annoiare o di spaventare lo spettatore scoprendo subito le carte. Clint, da quel vecchio saggio che è, suggerisce senza gridare ci racconta una storia che ognuno nel proprio cuore sa di aver già sentito. 

Anche se non possiamo vederlo nella scena finale, non ci pare che il personaggio di Walt sia lì, presente e compiaciuto della buona riuscita del suo piano? 

Walt (il 7° giorno?) si riposa scolando un paio di birre

mercoledì 18 gennaio 2012

J. Edgar - il lato oscuro del potere

 

Il problema con i film di Clint Eastwood sono le "great expectations", nel senso che il pubblico è ormai abituato ad un livello tale che un prodotto solo "buono" viene vissuto comunque come un passo falso. Ed è questa, purtroppo, l'impressione che lascia la visione di J. Edgar, l'ultima fatica del mio autore ottantaduenne preferito.
Il film analizza la figura di J. Edgar Hoover, il quasi onnipotente direttore del FBI, in carica dal 1924 al 1972. Hoover è una figura controversa: da un lato ha creato il più importante ente di polizia giudiziaria statunitense dotandolo di tecniche e procedure investigative d'avanguardia, dall'altro ha mantenuto carica e potere per quasi cinquanta anni probabilmente ricorrendo al ricatto e di certo a quello che oggi chiameremmo giornalisticamente dossieraggio.

Un personaggio così complesso richiede chiarezza nella tesi del film per evitare di iniziare troppi discorsi e non concluderne neanche uno.


 L'unico aspetto invece su cui la pellicola prende una posizione veramente chiara è l'ambigua sessualità di Hoover, che secondo alcuni avrebbe avuto nella figura del proprio vice Clyde Tolson un compagno fedele nella vita oltre che sul lavoro. Per dovere di cronaca, secondo  Wikipedia (del cui rigore storico è però lecito dubitare) la verità non sarebbe mai stata accertata e permangono diverse opinioni al riguardo. La sceneggiatura di Dustin Lance Black (Milk di Gus van Sant) gioca la carta dell'analisi psicologica a supporto dela propria tesi: troviamo dunque un padre debole, una madre autoritaria, una segretaria che assomiglia alla madre, e l'amante-collega che assomiglia al padre (fateci caso).
La repressione della sessualità di Hoover si fa quindi tendenza maniaco-compulsiva, proiezione verso un nemico facilmente identificabile (i bolscevichi in particolare e gli estremisti in genere) delle proprie minacce interiori. J. Edgar ha un solo obiettivo nella vita: il controllo. Infatti raccoglie, classifica ed utilizza senza scrupoli qualsiasi informazione e strumento che gli permetta il mantenimento di un mondo organizzato secondo i suoi desideri. Nel frattempo Hoover si circonda di persone rassicuranti e fedeli e contrasta senza pietà qualsiasi avversario, reale o presunto. Nella consapevolezza dell'impossibilità di raggiungere il controllo perfetto ed infallibile, nel film (sarebbe interessante sapere se l'episodio è storico o di fantasia) Hoover cambia la storia "pilotando" la propria biografia, fino ad inventarsi di sana pianta alcuni episodi, come Tolson gli rinfaccia in una drammatica scena.

 

Morale della storia: Hoover era gay e la repressione della propria personalità lo rese una persona disturbata e tormentata. Tesi interessante ed anche plausibile, ma non si sarebbe potuto esprimerla in un po' meno di due ore e un quarto, ed approfittare del tempo guadagnato per parlare anche d'altro?

Il tema mi pare poco adatto alle corde di Eastwood, che si trova più a suo agio quando ha a disposizione un'idea forte che può sviluppare, magari facendo finta di parlare d'altro come in Gran Torino o anche nel recente Hereafter. Anche in Invictus veniva analizzata una figura storica (Nelson Mandela), ma lì veniva preso in esame uno specifico episodio, forse nemmeno così importante nell'arco di una vita intera, con un riconoscibile valore esemplare. In J.Edgar invece si esce dalla sala senza poter tenere dentro un grande "...e quindi?".

Detto questo, il film si segnala per una ricostruzione storica estremamente accurata; come già in Changeling e nel dittico Flag of our fathers/Lettere da Iwo Jima, Eastwood si dimostra molto convincente nel ricreare l'atmsofera dell'epoca, probabilmente anche grazie alla collaborazione di Gary Fettis, set decorator di tutti i film di Clint dal 2006 in poi. I costumi sono di Deborah Hopper, altra collaboratrice fissa piuttosto a suo agio con il vintage, (per esempio erano opera sua anche gli eleganti costumi di Scomodi Omicidi di Lee Tamahori)



Billanti le prove degli attori: Leonardo di Caprio interpreta un Hoover sia più giovane che (parecchio) più vecchio di lui. A mio giudizio rende molto bene l'ambiguità di un personaggio che si maschera: orgoglioso ma a tratti mellifluo,  a tratti vulnerabile, ma più spesso deciso e impenetrabile. Visto in lingua originale (grazie alla lodevole iniziativa del cinema Centrale di Torino) Di Caprio è magistrale nell'imitare la cadenza della parlata, suppongo maniacalmente identica all'orginale. Il doppiaggio italiano a quanto si dice è invece piuttosto penalizzante.
Dopo il ruolo "gemello"di entrambi i fratelli Winklevoss in The Social Network di Fincher, Armie Hammer si conferma talentuoso nel ruolo di Clyde Tolson: benchè stereotipato, il suo personaggio è credibile e piacevole. Peccato per il trucco di Tolson da vecchio, che definire dilettantistico è un complimento.

Judy Dench giganteggia nell'interpretazione della madre di Hoover. Personaggio anche questo un tantino troppo prevedibile, ma quando dardeggia sguardi severi con quegli occhi duri viene lo stesso voglia di andare a chiudersi a chiave nello sgabuzzino.
Naomi Watts vestita e coiffata con cura, è un po' sacrificata nel ruolo della segretaria di Hoover, miss Gandy. Il personaggio non viene molto sviluppato, ma rende comunque l'idea di quello che a Torino chiameremmo un travet: è una figura che ama stare sempre un passo indietro, è solo un ingranaggio ma proprio dalla sua efficienza dipende il successo delle iniziative di Hoover.

Nell'insieme il film di certo non è fra i più riusciti di Eastwood, però è fotografato benissimo (da Tom Stern, altra presenza fissa nella crew di Clint), contiene - sia pure solo per accenno - alcuni episodi interessanti della storia relativamente recente degli Stati Uniti, infine pone alcune questioni come il trade off (mi si perdoni: l'inglese va di moda) fra sicurezza, rispetto delle leggi e controllo dei controllori che sono ahinoi di grande attualità. Il film non giunge a conclusioni su nessuna delle questioni che pone sul tavolo (questioni che peraltro non si prestano a soluzioni definitive, quanto ad approcci risolutivi differenti) ma almeno offre l'opportunità di aprire una riflessione, tanto più preziosa in quanto basata fatti realmente accaduti.


Un ringraziamento speciale alla dott.sa O. Bertoldo per l'analisi psicologica dei personaggi, anche se l'ho utilizzata solo come spunto di partenza per riflessioni di cui mi assumo in toto la paternità.


venerdì 12 marzo 2010

Invictus: Mud & Glory



Abbiamo visto per voi - con grande piacere peraltro - Invictus, l'ultima fatica di Clint Eastwood. Se Dirty Harry di solito prima sparava e poi chiedeva chi va là, il vecchio Clint (a maggio saranno 80, portati con grande eleganza) si dimostra una volta di più autore di staordinaria sensibilità.

Il film racconta come Nelson Mandela, dopo la fine dell'apartheid ed il suo insediamento come Presidente, utilizzò la Coppa del mondo di rugby del 1995 in Sudafrica come strumento di coesione nazionale. La storia è dunque basata su fatti storici, e questo rende la sua metafora ancora più potente.

Mandela prende per mano al tempo stesso una nazione ed una squadra sfiduciate, insicure dei propri mezzi e riluttanti al cambiamento e indica loro la via per raggiungere un obiettivo (che sarà sì sportivo, ma soprattutto politico) al di là di ogni aspettativa.

Oltre al regista, ispirati anche gli attori protagonisti, Morgan Freeman particolarmente in palla nel ruolo di Mandela (c'è voluto uno straordinario Jeff Bridges per batterlo nella corsa all'Oscar come miglior attore protagonista) e Matt Damon in versione al nandrolone (scherzi a parte cosa gli avranno mai dato per fargli gonfiare così i muscoli?) nel ruolo di François Pienaar, capitano degli Springboks campioni del mondo.

Belli i costumi, con un Mandela sempre impeccabile quando è nel ruolo istituzionale, preferibilmente in completi chiari, nella vita privata invece sfoggia camicie o maglie multicolori. Matt Damon indossa un elegante completo blu solo per il the al palazzo presidenziale, mentre per tutto il resto del film è in abiti sportivi, di solito sporchi di fango, impegnatissimo nel fare la propria parte nella costruzione di una nuova identità nazionale.
"Questa Nazione ha fame di gloria" dice Mandela in una scena del film, e nessuno più di lui, o di un rugbysta, sa che i grandi traguardi si raggiungono sì lottando nel fango, ma a viso aperto, senza rinunciare a comportarsi con stile. I veri uomini - e il film ne abbonda - sono buoni ma non buonisti, sanno soffrire, lottano per le proprie idee e qualche volta cambiano idea! Una lezione, e non solo di cinema. Decisamente consigliato.