giovedì 10 febbraio 2011

Il discorso del re - The king's speech


E’ un Albert-Giorgio VI piuttosto preoccupato quello che si accinge a pronunciare un discorso davanti al microfono che, dallo stadio gremito di gente dove si trova, trasporterà la sua voce in tutto il regno attraverso la radio. E come scopriamo subito, ha i suoi buoni motivi visto che è affetto da balbuzie fin dalla più tenera infanzia. Il discorso si risolve in un disastro, ma Albert affronta l’umiliazione con dignità davvero regale. Si vedrà nel prosieguo che ha la grande dote di essere uomo di fegato.

Il film di Tom Hooper (Il maledetto united, Red dust con Hilary Swank) che si avvia a far man bassa di premi ai prossimi Oscar, pur non essendo un capolavoro dal punto di vista artistico, ha il pregio di piacere a tutti senza essere banale, il che non ci sembra poco.
In alcune sale la pellicola è proiettata in versione originale sottotitolata, per coloro che conoscono l'inglese ci sentiamo di consigliarla.

La trama segue le vicissitudini di Albert di York, figlio cadetto di re Giorgio V, alle prese con le difficoltà nel sostenere un ruolo pubblico al confronto con un genitore energico ed un fratello (David-Edoardo VIII) brillante. Per ovviare al difetto di pronuncia, giudicato limitante a fronte dell’avvento della comunicazione di massa, si sottopone a estenuanti quanto ridicole cure presso i migliori specialisti. Quando ormai sembra aver perso ogni speranza, la devota moglie Elizabeth – la futura popolarissima Regina Madre – scova un eccentrico logopedista australiano, Lionel Logue, a fianco del quale Albert inizierà un percorso di cura che porterà alla radice del problema, cioè l’aspetto psicologico. Alla morte di Giorgio V , David-Edoardo VIII ascende  al trono ma vi rinuncia dopo pochi mesi per convolare a nozze con Wallis Simpson, americana anticonformista (a essere gentili) e pluridivorziata.
Albert, suo malgrado, si trova a regnare in tempi particolarmente duri. Dovrà pronunciare un difficile discorso radiofonico in occasione dell’entrata in guerra del Regno Unito contro la Germania di Hitler.  A dispetto delle differenze di classe, delle incomprensioni personali e delle resistenze della corte, Lionel e Albert, due amici, due persone, uniranno gli sforzi nel tentativo di consentire al re, con il proprio discorso, di trasmettere fiducia e coraggio alla nazione intera.
La storia ci dice che i due rimasero amici per tutta la vita.

Dal punto di vista tecnico il film è interessante, senza strafare. Le scenografie sono efficaci, sia nel lusso senza eccessivo sfarzo dei palazzi reali, sia nello spoglio studio di Logue. I costumi maschili sono di grande eleganza, quelli femminili, a nostro giudizio, peccano di eccessivo understatement. Le inquadrature durante i discorsi pubblici di Albert si fanno avvolgenti e deformano il pubblico in modo ansiogeno per rappresentare le paure di Albert.

Fra gli interpreti segnaliamo un Colin Firth magistrale nell'interpretazione di Giorgio VI; Geoffrey Rush nel ruolo di Lionel Logue non cede alla tentazione di caricare il lato dissacratorio del proprio personaggio mentre Elena Bonham Carter, dopo gli ultimi film di Tim Burton e la saga di Harry Potter, ha finalmente a disposizione un ruolo - Elizabeth di York -che le rende giustizia e non si lascia scappare l’occasione per regalarci un’ottima interpretazione! Infine Guy Pearce regala la propria faccia da… impunito a un convincente Edoardo VIII.

Il film, come già visto in Invictus di Clint Eastwood, analizza un preciso episodio della vita di un personaggio storico. Ci troviamo forse all’inizio di un filone di cinema “agiografico”? Lo sapremo nei prossimi anni.
Quello che colpisce nella pellicola di Hooper è la serietà dei personaggi. Sono però seri, non seriosi. Ciascuno (eccetto Edoardo VIII che sceglie di privilegiare la vita privata) è cosciente del proprio ruolo e non si concede personalismi. Albert Giorgio VI è un leader “vulnerabile”, ha piena coscienza dei propri limiti, nutre dubbi sulle proprie capacità e tuttavia non rinuncia a lottare nonostante le ripetute umiliazioni. Non è facile per nessuno essere all’altezza del proprio ruolo, non è facile essere un leader; ma anche se la vita non va come previsto, l’unico modo per farcela è mettersi costantemente in gioco, senza indulgere all’autocommiserazione. Una “regale” lezione, tanto più convincente, visto che la storia è vera!

Secondo Sabatini-Colletti la definizione di Maestoso è “Che manifesta o denota maestà; che suscita ammirazione e rispetto”. Sia per la regia che per screenplay, interpretazione e - soprattutto - personaggi, quale aggettivo migliore di questo? 

venerdì 4 febbraio 2011

Mancia competente - It could be sweet


Vi è mai capitato di ordinare ostriche al ristorante e trovare dentro una di esse una perla? Questa è la sensazione esatta che abbiamo provato noi assistendo alla proiezione di Mancia competente, pessima traduzione (al solito) del ben più incisivo titolo inglese Trouble in paradise. Si tratta del 53° film di Ernst Lubitsch (Anna Bolena, L'allegro tenente, Montecarlo, Il principe consorte) maestro tedesco, trasferitosi negli USA, della commedia brillante.
La trama racconta di Gaston Monescu (Herbert Marshall, visto in Venere Bionda di Von Sternberg) ladro e truffatore che passa la vita depredando i facoltosi ospiti di alberghi di lusso. Gaston, nel corso di una delle sue avventure, si imbatte in Lily (Miriam Hopkins, L'allegro tenente già con Lubitsch), giovane ed avvenente truffatrice. I due immediatamente riconoscono l'anima gemella l'uno nell'altra e iniziano una vita girovaga passando da un colpo all'altro. A Parigi i due decidono di derubare una ricca ereditiera, Madame Colet (una seducente Kay Francis, Peccato virtuoso, La donna e la femmina, Amanti senza domani). Il piano, diabolicamente semplice, prevede che Gaston guadagni la fiducia di Mme Colet lavorando come suo assistente personale fino a convicerla a trasferire una grossa somma di denaro in casa dove potrà essere rubato senza difficoltà da Gaston e Lily. La faccenda si rivelerà più complicata del previsto perchè il nuovo segretario di Mme Colet alimenterà al tempo stesso la gelosia dei numerosi pretendenti della bella milionaria e quella di Lily.


Gaston, innamoratosi della bella datrice di lavoro, si troverà quindi a dover scegliere non solo fra le due donne ma fra due stili di vita antitetici, e non vi faremo il torto di rivelare la sua scelta!



Per una volta, con nostra grande soddisfazione, possiamo soffermarci sui costumi: meravigliosi quelli femminili ma di grande eleganza e sobrietà anche quelli maschili. Travis Banton (Se io fossi re, Montecarlo, Il dr. Jekyll, Shangai express, solo per citarne alcuni), di cui prossimamante riparleremo su questo blog, si conferma il miglior costumista di Hollywood drappeggiando elegantissimi abiti, sia da giorno che da sera (i nostri preferiti, sia quello bianco nella scena a teatro, che quello nero indossato nel finale) utilizzando con maestria la seta e come motivo ricorrente irresistibili dettagli in pelliccia.


Degni di nota anche i costumi maschili, dalle classiche marsine indossate dai personaggi più tradizionalisti agli impeccabili completi di Gaston. Una cura particolare si apprezza nella scelta delle cravatte: magistrali gli accostamenti del pur arcigno manager Adolphe Giron, bello il papillon a pois indossato sul tight dal sempliciotto Mr Filiba.


Altrettanto curate le scenografie, semplici ma efficaci, che rendono perfettamente l'idea del lusso decadente degli alberghi veneziani, nelle sequenze iniziali, e del razionalismo minimal ma lussuoso della casa di Mme Colet.


Lubitsch tratteggia in modo impareggiabile un empireo di ricchezza e glamour nel quale i personaggi, solo apparentemente egoisti, lottano strenuamente per la conquista dell'amore. Spiccano (una volta tanto!) i personaggi femminili: emancipati, indipendenti e - anche quando poveri - privi della minima volgarità.
L'atmosfera è intrisa di un erotismo ben più che accennato, ma la rinuncia all'esibizionismo rafforza il senso di eleganza che caratterizza tutta la pellicola.


Nel gioco delle parti non si può che ingannare o essere ingannati, eppure non si sfugge al proprio destino: a qualcuno dei personaggi rimarrà solo la tistezza di una sconfitta ed il rimpianto  di come avrebbe potuto essere bella la vita (it could be sweet, come dolorosamente cantano i Portishead) se solo il mondo non fosse fatto come è fatto.
Brillanti i dialoghi con alcuni scambi di battute che resteranno memorabili, fra i quali non possiamo non citare quello in cui siamo certi molte lettrici si riconosceranno:


Commesso: "Questa borsa Mme Colet costa solo 3.000 Franchi"
Mme Colet: "Oh no, è decisamente troppo! Questa qui invece?"
Commesso: "Questa qui, Madame, costa 125.000 più cento Franchi!"
Mme Colet: "Ma è bellissima...la prendo!"



Come i più accorti fra i nostri lettori avranno già notato, questo film è piuttosto datato. Per la precisione è stato girato nel 1935. Eppure la domanda sorge dolorosamente spontanea: in quale film girato negli ultimi venti anni abbiamo il piacere di ammirare personaggi femminili di grande bellezza che non siano solo corpi da desiderare, in cui le donne siano capaci di realizzarsi da sole, arbitre del proprio destino senza per questo disprezzare il genere maschile? In quale pellicola di questi tempi tanto liberati e disinibiti quanto problematici il protagonista è in grado di sedurre con maestria una donna discettando del make up più adatto ad esaltare la di lei bellezza? In quale opera, ancora, l'eleganza maschile di abiti dal taglio accurato e delle cravatte scelte con sapienza non viene additata come simbolo della ricchezza che prevarica o di vuota formalità?
Forse l'amore per il vintage ci acceca, ma vedendo oggi questa commedia leggera e maliziosa, ci si rammarica che non si producano più pellicole così attente a quegli elementi come l'eleganza, lo stile, la cortesia che a nostro avviso hanno una platea assai più vasta di quanto alcuni soloni del marketing paiono pensare!

mercoledì 12 gennaio 2011

Hereafter - How soon is now?



E' con una certa preoccupazione che siamo entrati in sala per darvi conto dell'ultima opera di Clint Eastwood, di cui non pensiamo siano necessarie presentazioni.
La preoccupazione era dovuta parzialmente al tema trattato (l'aldilà) e in altra parte alle numerose recensioni comparse in questi giorni, divise fra il "capolavoro" ed il "povero vecchio, ormai si sente un piede nella fossa". A nostro avviso l'opera resta di un gradino al di sotto delle sue migliori, quanto alla seconda ipotesi vi rimandiamo alla foto qui sopra, a voi il giudizio!
Sgombriamo dunque preventivamente il campo da malintesi, Hereafter non è un film sulla morte, nè su cosa ci attende dopo la morte. A dispetto di sguardi superficiali Eastwood  con questo film ci ricorda che viviamo qui, adesso e solo di questo dovremmo preoccuparci. Che il discorso provenga da un autore di 80 anni (assai ben portati peraltro) è forse un sintomo dei nostri tempi irrisolti e depressi?

Belle e azzeccate le scenografie, in particolare la casa da single di Matt Damon e quella da intellettuale di una Cecile de France sempre molto ben vestita. Il che, oltre a piacerci "a prescindere", è anche ben in accordo con il personaggio.
Per potenza visiva e senso della misura la sequenza dello tsunami è da storia del cinema e da sola varrebbe il prezzo del biglietto.

La trama segue tre personaggi che più diversi non potrebbero essere: George Lonegan (Matt Damon), un sensitivo americano che rifugge dal proprio "dono" di comunicare coi morti (o meglio con le loro anime), Marie Lelay, una giornalista francese (Cecile de France - belga a dispetto del nome - Il giro del mondo in 80 giorni con Jackie Chan) in vacanza nel sud est asiatico travolta dallo tsunami, che prova un esperienza di vita oltre la vita e Marcus, un ragazzino inglese (Frankie McLaren, e il gemello George) proveniente da una famiglia disastrata (la madre è eroinomane) e che perde il proprio fratello gemello per un incidente automobilistico. I destini di questi tre personaggi seguiranno per quasi tutto il film strade parallele, per poi incrociarsi nel finale.

Questi personaggi, ciascuno a modo proprio ossessionato dalla morte, sperimentano dapprima l'incomprensione: George, perchè non vuole sfruttare economicamente le proprie possibilità di mettersi in relazione con l'aldilà; emblematico che a nessuno interessi cosa LUI provi o quanto gli costi, i suoi clienti vogliono solo sapere cosa ne è dei cari estinti. Marie, dopo essere quasi annegata nello tsunami inizia a porsi ed a porre domande importanti, sempre percepite come fuoriluogo. Il suo fidanzato-capo le spiega infastidito come sia ovvio che dopo la morte non c'è nulla, chiunque abbia buon senso lo sa. Incompresi anche i gemelli, che amano - ricambiati - la propria madre così com'è (anche se non rinunciano a sperare che diventi migliore).
Il secondo tema è la difficoltà a comunicare (o di ascoltare?). Quanto a George nè il fratello nè la possibile fiamma Melanie (Bryce Dallas Howard, figlia del Ron regista, vista in Twilight: Eclipse, Spiderman 3 di Sam Raimi, Come vi piace di Kenneth Branagh e Manderlay di Lars Von Trier) riescono a capire che lui non vuole più praticare un "dono" che porta più dolore che serenità. Riguardo a Marie, nè la casa editrice per cui dovrebbe scrivere un libro, nè il fidanzato-capo (che ci mette pochissimo a sostituirla, e non solo in video) riescono a capire la sua ansia di ricerca, di risposte. Nessuno, infine, intorno a Marcus, sembra realmente capire la sua necessità di ritrovare l'unico punto fermo della sua vita, letteralmente strappatogli via.
Il destino fa sì che i tre protagonisti si incontrino a Londra, dove avverrà la catarsi finale ed i nodi si scioglieranno in un inno alla vita.

Riassumono bene il film due frasi di George: quando - per bocca del fratello - afferma che non si può vivere pensando sempre alla morte, e quando tenta di convincere Melanie che ci sono cose, nel passato nostro e dei nostri cari che è meglio restino non dette. La poverina non lo ascolta e uscirà sconvolta dall'esperienza del contatto con l'aldilà.

Eastwood pare ammonirci: non ci è utile sapere se c'è e come è fatto il dopo... Quello che ci serve è capire che siamo comunque provvisori, e non è mai troppo tardi (citando gli Smiths: "quanto presto è ora?") per scegliere, con tutti i rischi che questo comporta, la vita.

sabato 1 gennaio 2011

L'esplosivo piano di Bazil - Shot of love


Dopo cinque anni, torna a dirigere un nuovo film Jean-Pierre Jeunet. Forte di alcuni titoli memorabili nel passato (l'abrasivo Delicatessen, ma anche il sanguinario Alien la clonazione oltre al celeberrimo Il favoloso mondo di Amélie), come tutti i grandi autori Jeunet ama sviluppare alcune tematiche che gli sono care: la famiglia - spesso d'elezione più che di sangue - il rapporto con la morte e, soprattutto, la casualità che rende la vita imprevedibile e affascinante.
Se dovessimo condensare in un aggettivo l'universo immmaginario di Jeunet non avremmo dubbi: strambo!  Strambi sono i personaggi, strambo il mondo in cui vivono: un universo al margine del mondo reale. Non per questo però i sentimenti sono meno profondi ed i dolori meno veri; non fa e non si fa sconti Jeunet: la vita è dura anche quando è magica!

Bazil, il protagonista interpretato da Dany Boon (qui sempre convincente dopo l'ottima prova in Giù al nord), da bambino perde il padre artificere in Africa saltato su una mina antiuomo, fuggito dall'orfanatrofio lo ritroviamo commesso in un negozio di dvd (come, nella realtà, fece Quentin Tarantino, solo un caso o una strizzata d'occhio?). Una sera, coinvolto per caso in una sparatoria, sopravvive ma gli resta una pallottola conficcata nel cervello. In seguito al ricovero in ospedale perde tutto: casa, lavoro e fiducia nella vita. L'incontro con una comunità di barboni riciclatori di rifiuti gli regalerà una famiglia e nuova speranza ("devi toglierti quella pallottola dalla testa figliolo", ovviamente non in senso letterale). Bazil viene per caso (o per magia?) a scoprire che le due fabbriche che hanno prodotto la mina che uccise il padre ed il proiettile che si porta nella testa si trovano proprio nella sua città e proprio una di fronte all'altra, come in una infinita guerra di trincea. Escogita dunque un piano, aiutato dai suoi improbabili quanto versatili amici, per abbattere le due multinazionali produttrici di sofisticati strumenti di morte.
Ovviamente Bazil non si abbasserà al livello dei suoi nemici, che verranno perduti dalla loro stessa avidità e destinati ad essere ridicolizzati e messi a nudo attraverso la nuova arma: internet (Jeunet precorre il fenomeno wikileaks con apprezzabile anticipo).

Come sempre nei film di Jeunet la scenografia è semplicemente adorabile. Bellissimo il contrasto fra le abitazioni, con interni in perfetto stile "steampunk", underground, tecnologici e retrò al tempo stesso per la banda dei barboni, uno stile techno-minimal per uno dei due direttori delle fabbriche d'armi e perfetta casa borghese per l'altro (interpretato da André Dussollier, presenza costante nei film di Jeunet, i meno giovani lo ricorderanno come uno dei tre scapoloni - il pilota d'aerei - di Tre uomini e una culla di Coline Serrau).

Jeunet ci presenta un mondo dove il male è presenza costante, ci sono dittatori che escogitano colpi di stato, fabbricanti d'armi senza scrupoli, malviventi che si sparano per strada. C'è anche chi, come Bazil, non ha più nulla, nè padre, nè madre e una minaccia costante per la sua vita dentro al suo corpo.
Eppure questa strana famiglia di barboni dimostra di avere ciò che il denaro non può comprare: l'amore ed il sostegno di una famiglia, sia pure "di risulta", come i personaggi ripetono spesso. Come tutto il materiale che toccano sono imperfetti, mutilati nell'anima o nel corpo, aggiustati alla meglio. Però, insieme ai difetti, ognuno di loro ha un talento e la volontà dimetterlo a disposizione di chi ama. 
Si prende così com'è, il materiale di risulta, lo si aggiusta e - a volte - se ne può trarre una vera e propria opera d'arte, come Petit Pierre lo strambo l'inventore sa fare costruendo con le posate un robot che chiede l'elemosina!