Vincere l'Orso d'oro del Filmfest di Berlino non è cosa di tutti i giorni, non potevo quindi esimermi dal vedere questo Cesare deve morire dei fratelli Taviani. I due alla bellezza di 81 e 83 anni dimostrano che quando c'è freschezza di sguardo l'età è un dettaglio che interessa solo agli ufficiali di anagrafe.
L'idea è potente quanto semplice: far recitare a detenuti del carcere di Rebibbia il Giulio Cesare di Shakespeare, ciascuno nella propria parlata di origine.
Il film è girato all'interno della sezione di massima sicurezza del carcere, nel quale sono reclusi i colpevoli di reati particolarmente gravi: omicidio, criminalità organizzata, traffico di stupefacenti. I detenuti coinvolti nel progetto stanno tutti (meritatamente, a quanto se ne deduce dalla presentazione che se ne fa nel film) scontando pene piuttosto pesanti.La pellicola gioca su un piano di lettura (almeno) doppio: segue passo dopo passo l'organizzazione della rappresentazione teatrale mostrando dapprima i provini degli attori, poi il succedersi delle prove ed il processo di immedesimazione degli attori nel personaggio, con qualche toccata e fuga nella (fittizia) realtà, come nel litigio fra gli attori che recitano Cesare e Decio, o quando ci mostra uno Striano-Bruto che ripete il copione nei corridoi del carcere, o si commuove al pensiero del parallelo fra una scena del dramma ed un episodio realmente vissuto .
I detenuti-attori si dimostrano a proprio agio, in modo anche un po' sconcertante, con l'immaginario mondo di una Roma imperiale dominata dall'intrigo politico, dal senso dell'onore, dalla fedeltà ad un leader con diritto di vita e di morte sui suoi sudditi.
Cesare, in fondo, deve morire perché venuto meno al tacito patto che lo lega ai propri generali, in un mondo dove il singolo è nulla e la (onorabile) società è tutto, a Roma come a Corleone o a Scampia cambiano i tempi, l'uomo no.
Decio tenta di manipolare Cesare con blandizie |
Fra gli attori a mio parere spicca una spanna sopra gli altri Giovanni Arcuri, un Cesare "romano de Roma" molto credibile, autoritario e paternalistico; si distinguono anche Cosimo Rega (Cassio): una vera eminenza grigia e, infine, Salvatore Striano, un Bruto intenso e tormentato (bellissimo il primo piano all'inzio del film).
Molto bella la fotografia di Simone Zampagni, già collaboratore dei Taviani anche se abitualmente lavora per la TV (Distretto di Polizia, Il tredicesimo apostolo); gioca fra colore e bianco e nero, con un contrasto che acuisce l'espressività degli attori.
Va detto con chiarezza che il film non ha nulla di documentaristico: non si propone - ed in effetti non lo fa - di rappresentare fedelmente la realtà della vita carceraria, suggerisce però un parallelo di grande efficacia artistica fra la prigione fisica del carcere e la "gabbia" di valori sociali nei quali volenti o nolenti ci muoviamo un po' tutti.
In definitiva un film che dimostra come anche in Italia sia possibile fare ancora Cinema, mettendo a frutto un'idea originale realizzata con una cura incredibile, che neppure lo squallore dell'ambientazione riesce nascondere completamente.
Bruto fronteggia Antonio dopo l'assassinio |
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