Maritza, "une belle noiseuse" |
Se ogni tanto frequentate queso blog saprete che sono un grande appassionato della Citroen DS, un'auto d'epoca alla quale ho incautamente dedicato una rubrica. L'impresa, quasi sovrumana, è quella di censire tutti i film in cui la DS ha un ruolo.
Orbene, mentre ero impegnato nella ricerca di materiale on line per nutrire la mia passione mi sono imbattuto in una pellicola di cui ignoravo - horreur! - l'esistenza e nella quale compare una fantastica DS decappottabile. Niente paura, oggi parliamo del film, non dell'auto.
Questa misteriosa pellicola è nientemeno che Amore che vieni amore che vai, pellicola di Daniele Costantini liberamente tratta dal romanzo Un destino ridicolo, scritto a quattro mani da Alessandro Gennari e Fabrizio De Andrè, e scusate se è poco.
Il libro, che si presume parzialmente autobiografico, è ambientato nei primi anni 60 fra Genova e la Sardegna ed è popolato esattamente dal tipo di personaggi che vi aspettereste da un libro di De Andrè: prostitute, malavitosi, papponi, galeotti e tutta la varia e affascinante umanità che popola la zona del porto di Genova.
I tre protagonisti, improbabili carabinieri |
La storia segue tre personaggi, il giovane Carlo (il multi-talentuoso Fausto Paravidino), strana figura di pappone-per-caso con tanto di mamma al seguito, il sornione Bernard (Massimo Popolizio, genovese vero) piccolo boss locale ed il sardo Salvatore (Filippo Nigro), appena uscito di prigione pensa bene di innamorarsi di una delle prostitute protette da Carlo, Veretta (Donatella Finocchiaro, brava e bella).
I tre, che mal si sopportano l'un l'altro, progettano il "colpo della vita", quello che risolverà una buona volta tutti i loro problemi. Salvatore potrebbe sposare la sua Veretta e tornare a fare il contadino in Sardegna, Carlo fantastica di trasferirsi ai caraibi con la bella e volubile Maritza (Claudia Zanella, una carriera a metà fra TV e grande schermo), Bernard invece non sogna nulla se non la ricchezza.
Il colpo tecnicamente riesce ma un imprevisto farà sì che la refurtiva sparisca in modo misterioso. Così Carlo cade in depressione per la perdita di Maritza, Veretta resta abbandonata e incinta senza saper più nulla di Salvatore, Bernard...lui continuerà a dedicarsi al proprio business.
Il finale, non proprio a sorpresa, trasforma la tragedia in farsa: per i nostri personaggi si compirà un destino ridicolo e forse inevitabile in cui persino la redenzione ha come contraltare uno sberleffo.
Carlo "fa il giro" accompagnato da mammà |
Nel complesso una produzione che pare fatta più per la TV che per il grande schermo, come se al dunque fosse mancato il coraggio di tentare un'impresa più ambiziosa.
La ricostruzione dei primi anni 60 è fatta più "a orecchio" che di rigore filologico, poco convincente nella scenografia e per nulla nei costumi, pare fatta per evocare più un'atmosfera che un vero e proprio periodo.
I costumi (opera di Elisabetta Montaldo ed Elisabetta Antico) ancorché poco credibili sono comunque belli
La fotografia di Alessio Gelsini Torresi (Ultrà, Vite Strozzate, Jack Frusciante è uscito dal gruppo) è un po' patinata, mi ha ricordato un po' certe produzioni anni 80, sensazione non spiacevole.
Le auto sono molto belle: la Giulia dei carabinieri verde oliva e la DS cabrio azzurra di Bernard, sulla quale tornerò nella apposita rubrica ;-)
Veretta, bella e triste |
Non ho letto il romanzo e non posso quindi giudicarne la riduzione in sceneggiatura, però il risultato è un film che si lascia guardare senza mai decollare davvero. Certo, il fatto che ci sia un pezzo da novanta come De Andrè alle spalle dell'operazione - almeno a livello di ispirazione artistica - genera aspettative che forse non potrebbero in nessun caso essere soddisfatte, a mio avviso però il film manca dell'elemento che potrebbe costituirne invece il punto di forza: i personaggi. Potrebbero avere tutte le caratteristiche di quelli descritti in una canzone come La città vecchia, e invece manca proprio quello sguardo affettuoso e al tempo stesso spietato sulle miserie, la pochezza morale, la quieta disperazione di un'umanità che forse non ha mai davvero avuto una chance, e se l'ha avuta di certo se l'è giocata ai dadi.
Luciana - Tosca D'Acquino |
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