mercoledì 18 gennaio 2012

J. Edgar - il lato oscuro del potere

 

Il problema con i film di Clint Eastwood sono le "great expectations", nel senso che il pubblico è ormai abituato ad un livello tale che un prodotto solo "buono" viene vissuto comunque come un passo falso. Ed è questa, purtroppo, l'impressione che lascia la visione di J. Edgar, l'ultima fatica del mio autore ottantaduenne preferito.
Il film analizza la figura di J. Edgar Hoover, il quasi onnipotente direttore del FBI, in carica dal 1924 al 1972. Hoover è una figura controversa: da un lato ha creato il più importante ente di polizia giudiziaria statunitense dotandolo di tecniche e procedure investigative d'avanguardia, dall'altro ha mantenuto carica e potere per quasi cinquanta anni probabilmente ricorrendo al ricatto e di certo a quello che oggi chiameremmo giornalisticamente dossieraggio.

Un personaggio così complesso richiede chiarezza nella tesi del film per evitare di iniziare troppi discorsi e non concluderne neanche uno.


 L'unico aspetto invece su cui la pellicola prende una posizione veramente chiara è l'ambigua sessualità di Hoover, che secondo alcuni avrebbe avuto nella figura del proprio vice Clyde Tolson un compagno fedele nella vita oltre che sul lavoro. Per dovere di cronaca, secondo  Wikipedia (del cui rigore storico è però lecito dubitare) la verità non sarebbe mai stata accertata e permangono diverse opinioni al riguardo. La sceneggiatura di Dustin Lance Black (Milk di Gus van Sant) gioca la carta dell'analisi psicologica a supporto dela propria tesi: troviamo dunque un padre debole, una madre autoritaria, una segretaria che assomiglia alla madre, e l'amante-collega che assomiglia al padre (fateci caso).
La repressione della sessualità di Hoover si fa quindi tendenza maniaco-compulsiva, proiezione verso un nemico facilmente identificabile (i bolscevichi in particolare e gli estremisti in genere) delle proprie minacce interiori. J. Edgar ha un solo obiettivo nella vita: il controllo. Infatti raccoglie, classifica ed utilizza senza scrupoli qualsiasi informazione e strumento che gli permetta il mantenimento di un mondo organizzato secondo i suoi desideri. Nel frattempo Hoover si circonda di persone rassicuranti e fedeli e contrasta senza pietà qualsiasi avversario, reale o presunto. Nella consapevolezza dell'impossibilità di raggiungere il controllo perfetto ed infallibile, nel film (sarebbe interessante sapere se l'episodio è storico o di fantasia) Hoover cambia la storia "pilotando" la propria biografia, fino ad inventarsi di sana pianta alcuni episodi, come Tolson gli rinfaccia in una drammatica scena.

 

Morale della storia: Hoover era gay e la repressione della propria personalità lo rese una persona disturbata e tormentata. Tesi interessante ed anche plausibile, ma non si sarebbe potuto esprimerla in un po' meno di due ore e un quarto, ed approfittare del tempo guadagnato per parlare anche d'altro?

Il tema mi pare poco adatto alle corde di Eastwood, che si trova più a suo agio quando ha a disposizione un'idea forte che può sviluppare, magari facendo finta di parlare d'altro come in Gran Torino o anche nel recente Hereafter. Anche in Invictus veniva analizzata una figura storica (Nelson Mandela), ma lì veniva preso in esame uno specifico episodio, forse nemmeno così importante nell'arco di una vita intera, con un riconoscibile valore esemplare. In J.Edgar invece si esce dalla sala senza poter tenere dentro un grande "...e quindi?".

Detto questo, il film si segnala per una ricostruzione storica estremamente accurata; come già in Changeling e nel dittico Flag of our fathers/Lettere da Iwo Jima, Eastwood si dimostra molto convincente nel ricreare l'atmsofera dell'epoca, probabilmente anche grazie alla collaborazione di Gary Fettis, set decorator di tutti i film di Clint dal 2006 in poi. I costumi sono di Deborah Hopper, altra collaboratrice fissa piuttosto a suo agio con il vintage, (per esempio erano opera sua anche gli eleganti costumi di Scomodi Omicidi di Lee Tamahori)



Billanti le prove degli attori: Leonardo di Caprio interpreta un Hoover sia più giovane che (parecchio) più vecchio di lui. A mio giudizio rende molto bene l'ambiguità di un personaggio che si maschera: orgoglioso ma a tratti mellifluo,  a tratti vulnerabile, ma più spesso deciso e impenetrabile. Visto in lingua originale (grazie alla lodevole iniziativa del cinema Centrale di Torino) Di Caprio è magistrale nell'imitare la cadenza della parlata, suppongo maniacalmente identica all'orginale. Il doppiaggio italiano a quanto si dice è invece piuttosto penalizzante.
Dopo il ruolo "gemello"di entrambi i fratelli Winklevoss in The Social Network di Fincher, Armie Hammer si conferma talentuoso nel ruolo di Clyde Tolson: benchè stereotipato, il suo personaggio è credibile e piacevole. Peccato per il trucco di Tolson da vecchio, che definire dilettantistico è un complimento.

Judy Dench giganteggia nell'interpretazione della madre di Hoover. Personaggio anche questo un tantino troppo prevedibile, ma quando dardeggia sguardi severi con quegli occhi duri viene lo stesso voglia di andare a chiudersi a chiave nello sgabuzzino.
Naomi Watts vestita e coiffata con cura, è un po' sacrificata nel ruolo della segretaria di Hoover, miss Gandy. Il personaggio non viene molto sviluppato, ma rende comunque l'idea di quello che a Torino chiameremmo un travet: è una figura che ama stare sempre un passo indietro, è solo un ingranaggio ma proprio dalla sua efficienza dipende il successo delle iniziative di Hoover.

Nell'insieme il film di certo non è fra i più riusciti di Eastwood, però è fotografato benissimo (da Tom Stern, altra presenza fissa nella crew di Clint), contiene - sia pure solo per accenno - alcuni episodi interessanti della storia relativamente recente degli Stati Uniti, infine pone alcune questioni come il trade off (mi si perdoni: l'inglese va di moda) fra sicurezza, rispetto delle leggi e controllo dei controllori che sono ahinoi di grande attualità. Il film non giunge a conclusioni su nessuna delle questioni che pone sul tavolo (questioni che peraltro non si prestano a soluzioni definitive, quanto ad approcci risolutivi differenti) ma almeno offre l'opportunità di aprire una riflessione, tanto più preziosa in quanto basata fatti realmente accaduti.


Un ringraziamento speciale alla dott.sa O. Bertoldo per l'analisi psicologica dei personaggi, anche se l'ho utilizzata solo come spunto di partenza per riflessioni di cui mi assumo in toto la paternità.


domenica 8 gennaio 2012

Cave of forgotten dreams



Chi ha avuto occasione di leggere altre mie recensioni di film realizzati in 3D (per esempio qui, o qui), già saprà che non sono un estimatore di questa (nuova?) tecnologia. L'utilizzo forzoso di uno strumento come gli occhialini mi fa pensare a una tecnica immatura, e il vago senso di mal di mare che immancabilmente mi pervade dopo pochi minuti mi lascia piuttosto perplesso. Per di più, l'indubbio fascino e la spettacolarità delle immagini tridimensionali è un facile richiamo per il pubblico che purtroppo non sempre viene onorato con la cura del 3D in tutti i ciak, ma solo in quelli di maggiore impatto scenico.  I paragoni con l'introduzione del sonoro o del colore a mio parere non reggono, almeno fino a quando non si trovi il modo di rendere la terza dimensione senza l'ausilio di appositi strumenti e senza indurre lo strabismo.



Tuttavia, nel caso di Cave Of Forgotten Dreams di Werner Herzog le perplessità vengono superate dalla maestria e dall'impegno profusi nella realizzazione di questo insolito documentario.
Herzog (non nuovo al genere, come testimoniano i precedenti Paese del silenzio e dell'oscurità, Echi da un regno oscuro, Rintocchi dal profondo, fino al recente Encounters at the End of the World) ottiene il permesso di filmare, con grande cautela  per non turbare il delicato microclima interno, la grotta Chauvet, uno spettacolare antro situato in Francia, precisamente nella regione dell'Ardeche, dove si trovano, in una cornice di spettacolari concrezioni naturali, i dipinti rupestri più antichi mai ritrovati.
Herzog (voce narrante fuori campo) non si perde un dettaglio, indaga la formazione delle caverne, come queste furono letteralmente sigillate, probabilmente da un sisma; in che modo venivano utilizzate, chi potevano essere e che tipo di vita conducevano i misteriosi pittori.



Con l'aiuto del team multidisciplinare di scienziati che sta analizzando tutti gli aspetti legati alle grotte Chauvet (geologi, antropologi, archeologi, etc...) Herzog ci guida all'interno delle grotte (chiuse a qualsiasi visita) permettendoci di ammirare e, una volta tanto grazie al 3D, quasi di toccare le rocce dipinte dai nostri misteriosi progenitori.



I dipinti sono meravigliosi, disegnati con un tratto sicuro e una capacità comunicativa straordinaria, e la telecamera non trascura alcun dettaglio, come i pezzetti di carbone utilizzati per disegnare e rimasti sul pavimento della caverna, ad attendere più di 30.000 anni prima che Herzog arrivasse a regalarci queste immagini straordinarie.
Si esce dalla sala con un turbine di pensieri e riflessioni in testa, non si può non pensare a questi primitivi uomini (l'ordine dei termini non è casuale) ed al messaggio che ancora ci arriva comprensibile dopo tutto questo tempo. Il paragone per molti versi è improprio, me ne rendo conto, ma la visita a qualche museo di arte contemporanea ci potrebbe forse far sentire più fratelli di un primitivo artista che lascia il palmo della propria mano a firma di un capolavoro, che non a qualche furbetto mercante di idee più o meno provocatorie.

Riproduzione della superficie della caverna al laser

Al contrario delle grotte di Lascaux,il cui sfruttamento turistico ha rovinato in pochi anni quello che i millenni avevano preservato (sono infatti ricoperte da uno strato fungino probabilmente causato dalla modifica del clima interno delle grotte), le grotte di Chauvet non solo sono chiuse al pubblico, ma anche l'accesso degli studiosi è limitato all'indispensabile. Un grazie in più, dunque, al rispettoso lavoro di Herzog che ci consente di godere in modo così realistico di un vero e proprio tesoro culturale, ma anche artistico.



La telecamera tridimensionale, che fatica tanto a convincere al di fuori dell'intrattenimento più scontato, si rivela invece piuttosto adatta allo stile documentaristico, o forse semplicemente un autore resta tale sia in due dimensioni che in tre, ed altrettanto accade per gli onesti, ma poco dotati professionisti del film di genere. Mi resta dunque un po' di rimpianto per non essere riuscito a vedere Pina 3D di Wenders sul teatro danza di Pina Bausch e attendo con curiosità il prossimo Hugo Cabret di Scorsese, che i giornali riportano entusiasta del'esperienza tridimensionale.